6^ puntata - ''Note sulla Confraternita del Santissimo Sacramento (XVI-XIX sec.) - 1^ parte''
Note sulla Confraternita del Santissimo Sacramento (XVI-XIX sec.) - 1^ parte
Notizie precise sulle origini della Confraternita non ci sono pervenute. Una copia otto-novecentesca di un documento risalente al 1699, contenente indicazioni sulle finalità del sodalizio, attesta molto genericamente che, in mancanza di titolo di fondazione, “da sicura tradizione trasmessa di generazione in generazione, si riteneva che essa fosse stata eretta nel secolo XIII, quando, istituita la festa del Corpus Domini, venivano istituite per tutto l’orbe cattolico le Pie Associazioni del Santissimo Sacramento” . L’ambito delle finalità che il sodalizio si proponeva non si discostava da quello delle altre congreghe del Santissimo e cioè sostenere le spese della cera e della musica nelle festa del Corpus Domini e dell’ottavario, nonchè per le cerimonie del Giovedì e Venerdì santo, celebrare le Quarantore nella Domenica delle Palme, offrire la cera tutte le terze domeniche del mese per la messa conventuale, fornire la cera alle parrocchie per i viatici e mantenere accesa la lampada nella Cappella del Santissimo di proprietà della Congrega .
Queste finalità, a leggere gli atti delle deliberazioni disponibili per i periodi 1636-1711 e 1838-1876 , per ovvie ragioni non sono mai venute meno e si sono integrate con quella dei maritaggi, riveniente dal legato del Monte Tristano, e con qualche altra sporadica iniziativa caritativa riguardante la liberazione di prigionieri molfettesi dalle mani dei turchi o, come si delibera nella conclusione del 26 giugno 1649, l’offerta di un contributo di 100 ducati, sollecitato dal vescovo Pinelli, per riparare la Cattedrale . Non v’è traccia di iniziative caritative, contrariamente a quanto si dice nella visita ad limina del vescovo Maiorano Maiorani del 1591, neppure nei pochi rendiconti superstiti, che tuttavia coprono un arco di tempo che va dal 1545 al 1795 . Le uniche notizie sulle attività caritative del sodalizio riguardano la seconda metà dell’Ottocento e si può ritenere che possa considerarsi tale, al livello più alto quella deliberata nel 1876, riguardante “l’inversione dei beni del Santissimo”, nel senso “di aggregare parte delle rendite [del sodalizio] a beneficio del nostro Ospedale”, ovvero l’operazione di fusione delle due confraternite allo scopo di incrementare le risorse dell’istituzione sanitaria molfettese, operazione di cui si dirà con maggiori dettagli più avanti .
Le deliberazioni non sono molto ricche di notizie, solitamente testimoniano la routine della vita confraternale e poco ci dicono dei passaggi essenziali della storia del sodalizio, che certamente conobbe un’evoluzione nella sua compagine. Nel periodo immediatamente successivo al Concilio di Trento, a differenza del periodo precedente quando i confratelli risultano 15 e tutti di origine patrizia e nobiliare , la Confraternita accoglieva 205 associati, ciascuno dei quali erogava a suo favore una quota annua di 12 grana. Quasi per metà il sodalizio è costituito da donne e dal punto di vista della condizione sociale emerge una compagine, per così dire, interclassista fatta di sacerdoti, di magistri, di magnifici e di altri comuni sudditi non qualificati, ad eccezione di alcune socie definite “sore”, con chiaro riferimento alla loro condizione religiosa . Nel 1594 il sodalizio delibera una sorta di chiusura oligarchica che riduce drasticamente il numero dei confratelli a 40, tutti provenienti dalle principali famiglie patrizie e nobiliari, quasi in simbiosi con la nomenclatura che governa la città, con esclusione delle donne, e la chiusura è tale che si riconosce, a partire dalla metà del Seicento, la difficoltà di congregarsi, data l’esiguità del numero dei fratelli . Come e perchè ciò sia avvenuto, se questa chiusura sia un ritorno al passato preconciliare oppure l’espressione di un necessario dimensionamento, mirante a rendere qualitativamente più efficace l’esplicazione del culto, la documentazione superstite non ce lo dice e ci suggerisce l’idea di una compagine esclusiva, elitaria, che si sente depositaria di una funzione religiosa e sociale particolarmente rilevante, molto attenta alla gestione delle risorse e al rispetto delle sue prerogative, fortemente gelosa della sua autonomia.
Non poche sono le indicazioni che riguardano la saggezza amministrativa dell’ente, presenti principalmente nelle deliberazioni ottocentesche, quando bisogna far fronte al recupero di crediti in forte attrasso e difficilmente esigibili o alla valorizzazione di beni immobili, che altrimenti sarebbero destinati a perdersi . Ma altrettanto saggia risulta la ricerca ad ogni costo di un compromesso nella vertenza che contrappone il sodalizio ai gestori del Monte Tristano, allo scopo di vederne al più presto messe al frutto del moltiplico le rendite . Non meno interessanti sono i riferimenti nei quali la Confraternita difende i suoi diritti e la sua autonomia, a cominciare dalla rivendicazione nel 1673 dei 30 carlini che la Confraternita riceve ogni lunedì santo, secondo una “continuatione di più centenara d’anni”, dal Monte della Pietà, che quell’anno aveva deciso di soprassedere, mettendo in grave imbarazzo Giulio Gadaleta, priore dell’una e dell’altra congrega , per finire a ben più gravi questioni che attengono a più sostanziali diritti, come quello del possesso della cappella.
Nel 1872 il presidente Francesco Capochiani, nel corso dei lavori di restauro del “cappellone”, “per maggior comodo dei confratelli nelle occorrenze delle funzioni”, aveva creduto opportuno creare da uno stipo presente nella sagrestia una porta che “mena[va] dietro all’Altare del Sacramento”, ritenendo legittimo l’intervento per essere la cappella del Santissimo e la sagrestia di proprietà del sodalizio. L’operazione viene duramente contestata dal vescovo, che esige con atto giudiziario il ripristino della situazione preesistente. La Confraternita delibera la chiusura della porta unicamente perchè si riconosce dai più che “tale vano [è] inconveniente per la riverenza dovuta al Santissimo”, ma d’altra parte si conviene di “far correre l’atto [giudiziario del Santissimo di opposizione a quello del vescovo] per non pregiudicare i diritti del Sodalizio” .
La questione della difesa dell’autonomia viene discussa nel 1858 quando, fraintendendo le disposizioni del Decreto Reale del 20 maggio 1857, il quale prescriveva che le congreghe del Santissimo organizzate unicamente per il servizio della chiesa e per il culto divino dovevano passare dalla dipendenza del Consiglio Generale degli Ospizi a quella degli ordinari, l’organo di controllo provinciale, d’accordo con il vicario della curia molfettese, aveva decretato il passaggio dell’amministrazione della Confraternita al vescovo, riducendo di fatto con questo provvedimento il sodalizio a “un corpo senz’anima”. La reazione del Santissimo è immediata e di sicuro successo, giacchè non è difficile dimostrare il senso logico-legale del rescritto reale, che prescrive il passaggio di dipendenza dall’una all’altra autorità, non già “il dominio, e possesso materiale di tutti gli oggetti della Congrega, e dell’Archivio” da parte dell’ordinario .
Gli echi delle gravi questioni che investono la vita cittadina si riverberano, nelle carte delle deliberazioni del Santissimo, in modo molto sfumato e sempre in rapporto agli interessi preminenti del sodalizio, che riguardano prevalentemente, accanto alle questioni relative al culto, l’efficace gestione delle risorse e la sapiente amministrazione dei beni, insomma gli ambiti di un orizzonte, per così dire, borghese, ancorchè ogni aspetto esaminato sia sempre finalizzato alla difesa delle entrate che garantiscano la possibilità di espletare le finalità istituzionali. Rilevanti, da questo punto di vista, sono tanto i riferimenti alla riduzione dell’esigenza, divenuta poca cosa a causa del fatto che sono “otiosi dà mille ducati non trovandosi ad impiegar à censo” - lamentela raccolta non a caso nel 1674, in uno degli anni terribili per Molfetta e l’intera economia meridionale -, quanto le sagaci preoccupazioni rivolte a non disperdere futilmente le opportunità delle entrate, gerarchizzando gli impegni di spesa nei momenti di particolari difficoltà, che inducono persino a rinunciare alla celebrazione delle 100 messe previste per la morte di un confratello , senza tuttavia sottrarsi a quelli che risultano, per così dire, produttivi. Non provvedere, infatti, al confezionamento degli abiti di tela con cui i confratelli possano vestirsi in tutte le occasioni nelle quali il cerimoniale lo richiede, significa correre “il pericolo di perdere li soliti emolumenti nell’occasione dei defunti che vengono accompagnati”: è spesa, questa, che va affrontata comunque, anche se i tempi non sono affatto migliorati sul piano finanziario .
Si tratta di una complessa strategia, capace anche di soluzioni sottili, che evidenziano una particolare attenzione a quelle che oggi si chiamano le esigenze del mercato, studiate allo scopo di rendere meno vulnerabile il sodalizio ai contraccolpi della crisi in atto. Così accade che nel 1669 si dia mandato ai priori di provvedere un anno prima per la cera dell’anno seguente, contrariamente a quanto s’è fatto in passato, per non essere poi costretti a pretendere subito dai debitori le rendite annuali, irritandoli e costringendoli all’affrancazione, cosa che danneggerebbe gravemente la Confraternita, date le difficoltà di reinvestimento dovute all’esorbitanza di capitali “indisposti” .
Del resto il Santissimo deve scontare le difficoltà generali della crisi secentesca, non solo per la riduzione dei capitali impiegati a censo, ma anche per l’impossibilità di esigere i crediti in corso e per la necessità di accettare ritocchi al ribasso del valore del suo numerario, sia a causa di eventi straordinari, come “i tumulti” del 1647-48 , sia a causa della più generale recessione economica, come accade nel 1658, quando il banco dell’anno precedente risulta in debito di 120 ducati di crediti non riscossi, “quali per li tempi mali [che] corrono non può esigere niente” , sia a causa della crisi monetaria che investe il Napoletano negli anni ’70, ragion per cui il sodalizio si vede costretto a dare a censo 800 ducati in tarì, “tanto difficili al spendere ò impiegarli à censo in quest’inflancenti dubitandosi doversi levare, e proibirsi detti tarì”, abbonando il corrispettivo della prima annata di rendita, a patto che fossero restituiti in moneta d’oro .
Di conseguenza, non possono essere ispirate ad altro se non alla necessità di attraversare con il minor numero possibile di danni la tempesta che mai si placa certe scelte che apparentemente possono sembrare dettate da meno nobili motivazioni, come quando nel 1655 si accoglie la sollecitazione del vescovo Pinelli ad utilizzare l’avanzo di bilancio per “fare un paramento decente per le solennità del SS.mo dentro la nostra Chiesa”, a patto che alle spese concorrano anche il Capitolo e l’Università , o quando si tratta di evitare spese superflue, non peritandosi di stigmatizzare la volontà del presule, che sembra non tener conto della realtà: “per ultimo s’esaggerò con sommo zelo dell’Ill.mo e Rev.mo Mons. nostro l’obligo della fervorosa devozione al SS.mo Sagramento, essortando li Confratelli ad andarlo associando, quante volte esce per l’infermi con torci particolari” . I confratelli avevano a cuore il decoro del viatico e nel 1663 avevano deliberato di far uscire il Santissimo per gli ammalati con sei torce invece che quattro, ma subito dopo questa decisione era parsa “stravagante” e ci si vide costretti a ritornare alle modalità del passato .
Sicchè tra non poche difficoltà il sodalizio riesce a far fronte alle spese che gli sono istituzionalmente richieste, anche quando il raggio d’azione si allarga, come in occasione della fondazione della nuova parrocchia nel suburbio, e allora su sollecitazione del vescovo la confraternita delibera di mettere a disposizione tutto quello che è necessario per somministrare il viatico agli ammalati che sono presenti fuori delle mura . E gli effetti della attenta ed efficace amministrazione si fanno notare, giacchè proprio in uno dei momenti più gravi della crisi, nel 1672, il sodalizio riesce a conseguire avanzi di bilancio che hanno del miracoloso (400 ducati) e che gli consentono di affrontare una spesa, dati i tempi, in qualche modo superflua, qual è quella di “fare un parato di Damasco nella Chiesa per le solennità”, laddove magari potevano essere utilizzati per ben più cogenti forme di carità . Il fatto che la compagine del Santissimo si sovrapponesse a quella del Monte può forse spiegare la mancanza di slanci caritativi in particolari momenti di grave crisi economica e sociale della vita cittadina, per supporre i confratelli di aver assolto a questo impegno umanitario in qualità di confratelli del Sacro Monte.
13/12/2013
|