3^ puntata - ''Alba'' - 1^ parte
Alba - 1^ parte
L’aria azzurra tremò per un istante, mentre ad est una forma sfumata apparve, simile al debole lucore di una candela in un bosco ombroso. Poi la sfera si definì, sfidando e vincendo la nebbia del mattino, fino a diventare un cerchio infuocato che sembrava ruotare su sè stesso, evidenziando il risalto tra essa e il cielo limpido.
Non c’erano mai nuvole, in quel periodo dell’anno. Da quelle parti, si sarebbe potuto parlare di primavera, se lei non fosse vissuta nel suo tempo. Secoli prima qualcuno avrebbe festeggiato quel sole, altri lo avrebbero maledetto. Qualcuno si sarebbe amato sotto quel cielo, battaglie avrebbero riempito l’aria di grida di scherno, lamenti di feriti, urla di vittoria. L’aria si sarebbe riempita del profumo dei fiori d’arancio se qualcuno di loro avesse unito eternamente la propria anima ad un’altra. Forse sotto quel cielo sarebbero nati uomini, ne sarebbero morti altri, forse la lingua della magia avrebbe cambiato ciò che avrebbe potuto compromettere il benessere della sua gente, forse ci sarebbe stata solo felicità, o quantomeno pochi sarebbero stati presi dalla paura. Non sotto quel cielo, non con quel sole benevolo che accarezzava innocente la pelle, non con quel sussurrare di vita pacifica attorno.
Ma lei viveva nel suo tempo. Un tempo in cui la sua gente, la sua razza viveva subendo ricatti su ricatti da creature corrotte dall’avidità da che elfo ebbe memoria. Un’epoca di una “pace” pagata con la libertà di pensiero, di religione, la libertà di essere quel che gli elfi sono e che non possono evitare di essere.
D’altronde sembrava ben poca cosa qualche rinuncia rispetto a quello che avevano ottenuto: la loro vita era salva, almeno per qualche tempo … il tempo di lasciare che il Morbo li sterminasse. Forse se gli elfi non avessero avuto come unico dovere morale enunciato espressamente quello di “Rispettare La Vita in ogni sua forma” avrebbero anche potuto lasciare che gli Abomini li prendessero, forse come morte non sarebbe stata così cruenta e avvilente. Purtroppo, negli elfi la moralità veniva prima di tutto. Nella loro essenza non c’era posto per la crudeltà o l’odio, non combattevano mai con l’intento di uccidere e non mangiavano animali se non in casi eccezionali, persino con quel tenore di vita. Vivere nella Roccaforte per chi aveva conosciuto da millenni solo boschi e ruscelli e aria fresca non era semplice, forse per questo giunti nell’Età del Lume gli elfi della Nuova Generazione mutavano in creature nere come la notte, malinconiche e ombrose, e infine morivano dopo atroci sofferenze protratte per anni. L’ arte taumaturgica consentiva solo di dilatare il tempo della sofferenza, in quanto il primo e unico imperativo del loro Statuto era << Non uccidere e preserva la vita in ogni sua forma finchè ti è possibile>> e non era contemplata alcuna forma di omicidio compassionevole per chi continuava a sopravvivere orrendamente mutilato.
Gli umani e i nani continuavano a vivere non toccati nè dalla tragedia nè dalla compassione, indifferenti e gelidi come la Catena di Diamante. Le poche centinaia di “orecchie a punta” ancora vivi impallidivano di fronte a decine di migliaia di loro, senza contare che era solo questione di tempo: entro un secolo al massimo la razza di quegli insopportabili musicisti e cantori, quegli artisti pestiferi e con la testa tra le nuvole avrebbe lasciato a loro quello spazio che riempivano come un tarlo nel legno. Tanto valeva sopportare ancora un po’ quei loro “Capi Eletti” nel Consiglio della Monotriade, consci che presto solo Il Sapiente e il Re dei Nani avrebbero comandato.
Layana Indil Seamoon era il quarto Capo Eletto dalla stesura del Codice delle Tre Razze che aveva sancito la nascita della oligarchia nella Roccaforte sotto le montagne. Ancora non si spiegava perchè fosse stata scelta come loro rappresentante vista la giovane età e il temperamento forte e caparbio, molto lontano dalla grazia e dalla pacatezza degli altri elfi puri. Odiava il suo incarico, odiava il Re Wilhelm Ath Thomak perchè lo considerava un viscido, mentre Rudiger, rappresentante umano, era poco più di una presenza muta. Alla fine litigava sempre con il nano, l’umano taceva e lei lasciava con i suoi soldati la stanza e passava i due giorni successivi in un mutismo offeso per poi rivolgere l’aggressività su se stessa, maledicendosi per le proprie pretese di correttezza e giustizia da degli stolti per natura come i “Barbuti”.
Dei passi pesanti la distolsero dai suoi pensieri sconclusionati. Volse lo sguardo a nord: era a qualche lega dalla Roccaforte ma aveva subito riconosciuto la figura di Mark. Attese che si avvicinasse all’albero su cui si era arrampicata e fece un cenno, certa che l’avrebbe scorta attraverso il fitto fogliame dell’acero su cui era seduta.
Erede di un’unione violenta, Mark aveva un quarto di sangue orco che aveva modificato i classici lineamenti delicati che altrimenti avrebbe mostrato. Quello che più lo differenziava dagli altri era la sua mole: tre spanne più alto e due volte più massiccio di un elfo di sangue puro, Mark era il combattente perfetto: aveva come vantaggi la velocità, i riflessi e i sensi acuti dei suoi genitori, mentre dal suo nonno orco aveva acquisito una forza animalesca e una tempra d’acciaio. I suoi occhi erano grandi e ambrati – mentre le leggende che narravano della razza ormai estinta descrivevano gli orchi dotati di occhi come braci ardenti – meno obliqui del normale e una leggera peluria, che un elfo non avrebbe mai potuto far crescere, gli copriva sempre la mascella squadrata. Per fortuna a parte una preferenza smodata per la carne cruda non aveva ereditato l’aggressività, la sete di sangue e battaglia e l’avversione per la compagnia tipica degli orchi. Mark anzi era buono e onesto, affezionato alla felicità degli altri più che alla propria e sempre disponibile per chi si arrischiasse a chiedere aiuto a un ibrido.
- Indil, non dovresti passare il tuo tempo fuori dalla protezione della fortezza. Io non posso sempre preoccuparmi della tua incolumità.-
- E chi ti ha chiesto di farlo?! Torna pure nella tua confortevole fossa, io preferisco godermi l’alba piuttosto che starmene sottoterra come una talpa.-
L’espressione falsamente irritata della ragazza riempì il ragazzo di tenerezza: quella peste non sarebbe cambiata mai. Sorrise, scuotendo leggermente la testa e fingendo un tono rassegnato.
– Non ti insegnerò mai a parlare da brava signorina. –
Indil sbuffò, rivolgendo lo sguardo verso il sole ormai sorto che riempiva di pagliuzze dorate i suoi occhi verde foglia. La sua espressione divenne malinconica.
- Non ti sembra che ogni alba inganni quelli come noi?- sussurrò, più a sè stessa che a lui – Ogni volta che sorge il sole ci illudiamo che ad aspettarci ci sia un luminoso giorno, invece siamo costretti in una notte artificiale, sepolti vivi per tutta la vita. Tanto varrebbe essere morti.
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23/12/2013
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