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CRONISTORIA DI UN ECCIDIO A MOLFETTA: I bassifondi della città erano malcontenti - parte 2

CRONISTORIA DI UN ECCIDIO A MOLFETTA: I bassifondi della città erano malcontenti - parte 2


Il cattivo raccolto del grano del 1897 (ben 16 milioni di quintali in meno rispetto all’anno precedente) aveva enormemente peggiorato le condizioni di vita delle classi meno abbienti, portandole ai limiti della sopravvivenza e già sul finire di quell’anno si erano avute in diverse parti della penisola spontanee dimostrazioni di protesta, che continuarono nel gennaio successivo, represse a volte nel sangue dal governo di stampo liberale, capeggiato dal marchese Antonio di Rudinì, il quale si era rifiutato ostinatamente di accogliere la proposta presentata, già dall’estate del ’97, dalle forze di opposizione di abolire almeno temporaneamente, per farne calare il prezzo sul mercato nazionale, il dazio d’entrata sul grano d’importazione, che, sommato al dazio di consumo locale, incideva sul prezzo del pane nella misura del 40% circa.
Il governo di Rudinì, orientato soprattutto a mantenere l’equilibrio del bilancio, ottenuto principalmente al prezzo di diversi inasprimenti fiscali, che avevano colpito soprattutto le classi subalterne, e di una drastica riduzione delle spese necessarie per dar lavoro ai disoccupati, preoccupato altresì di non scontentare gli interessi degli agrari meridionali, rappresentati nel governo, proprio a partire dal dicembre del ’97, anche dal ricco agrario pugliese Giuseppe Pavoncelli, agì tardivamente. La drammaticità degli eventi rende a volte molto più significativamente il senso delle cose: a Minervino Murge durante quel tragico 1° maggio ’98 fu trucidato dalla folla inferocita dalla fame un proprietario terriero che il giorno precedente aveva fatto celebrare una messa di ringraziamento alla Madonna perchè il grano aveva raggiunto prezzi impensabili.
Il disavanzo statale diminuì e il piano economico 1898/99 registrò persino un avanzo di 11 milioni, ma la cecità politica della compagine governativa, coniugata alla strenua difesa degli interessi dei grandi proprietari terrieri, non andò oltre la riduzione, decretata il 23 gennaio 1898, da 7.5 a 5 lire a quintale del dazio sul grano di importazione, riduzione che tuttavia non compensò gli ulteriori aumenti determinati dalle manovre speculative e dagli inevitabili rincari che proprio il provvedimento dl governo aveva involontariamente indotto nei paesi produttori. Quando il governo il 4 maggio decise di sospendere temporaneamente il dazio d’entrata fino al 30 giugno, era ormai troppo tardi.
Per avere un’idea della gravità della situazione, resa del tutto insostenibile nell’aprile di quell’anno oltre che dallo scarso raccolto dell’anno precedente anche dal forte aumento del costo dei noli marittimi, conseguente allo scoppio della guerra ispano-americana, che fece salire il prezzo del grano di oltre il 60% rispetto al ’96, vale la pena ricordare che quando in quel torno di tempo la crisi si acuì e l’amministrazione comunale molfettese dovè intervenire per arginare il malcontento popolare, vendendo il pane a prezzo politico, un chilo di pane era venduto a 35 centesimi, pari a più di un quinto della paga media giornaliera di un lavoratore, il che significa che se facessimo un confronto con la situazione attuale, avremmo che un chilo di pane oggi costerebbe, secondo quel rapporto, oltre 10 mila delle vecchie lire, ponendo la paga media giornaliera a 50 mila.
Il governo, che pure aveva mostrato qualche interessamento alle questioni sociali approvando proprio nel marzo del ’98 una legge con la quale rendeva obbligatoria l’assicurazione degli operai dell’industria contro gli infortuni sul lavoro e istituendo nel luglio successivo l’assicurazione facoltativa di previdenza per invalidità e vecchiaia, facendo fare dei passi in avanti alla nostra limitatissima legislazione sociale, vide nei tumulti del pane, che assunsero almeno inizialmente e quasi dappertutto le tipiche forme delle jaquerie, soltanto l’espressione di una cospirazione rivoluzionaria ispirata dai socialisti a fini eversivi e di conseguenza usò il pugno di ferro con terribile determinazione, fino ai limiti dell’impensabile, come accadde a Milano, dove fu bombardato il convento dei cappuccini di Via Monforte, sospettato di essere un covo di sovversivi.
Un’idea, quella del complotto rivoluzionario, resa plausibile dall’accentuarsi della tensione sociale
manifestatasi a partire dalla primavera del ’97, con una forte ripresa di agitazioni e scioperi soprattutto al Nord, interpretata come inevitabile conseguenza della diffusione delle idee socialiste. Si aggiunga poi l’attentato di Pietro Acciarito al re il 22 aprile di quell’anno, che portò all’arresto indiscriminato di militanti anarchici, socialisti e repubblicani romani, uno dei quali morì in carcere per le sevizie subite dagli inquisitori che volevano fargli confessare la trama eversiva che si sospettava essere in atto, con conseguenti violente dimostrazioni di protesta. La grande paura di una rivoluzione alle porte pervase sempre più i settori di potere e i ceti benestanti e si espresse non solo in inevitabili pressioni sul governo, perchè usasse le maniere forti, ma anche in più esemplari atteggiamenti, come quello delle aristocratiche signore milanesi che nelle more dell’attacco al convento di Via Monforte sostennero le fatiche degli ausiliari della truppa rifocillandoli con dolciumi e marsala.
L’idea di trasformare le sommosse del pane in un generalizzato moto politico di insurrezione, anche se poteva serpeggiare in settori più o meno ampi della base socialista, era però lontano mille miglia dalle intenzioni dei dirigenti del partito. Prova ne è il fatto che quasi tutte le vittime di quelle tragiche giornate furono tra i dimostranti (poco meno di duecento rispetto a tre delle forze dell’ordine), il che mette in evidenza il carattere spontaneo e improvvisato delle agitazioni, animate inizialmente in molte località da donne e “monelli”, ma soprattutto non lascia dubbi il contenuto liquidatorio della lettera che FilippoTurati, inviò a Salvemini, nella quale, rispondendo alle sollecitazioni di quest’ultimo “perchè il partito si ponesse a capo dell’agitazione”, il leader del PSI affermava: “Io non credo a questi moti, e vorrei sbagliare. Ma non ci credo. E non mi sento di assumermi responsabilità gravissime per uno scopo che non vedo chiaro e che, nelle migliori ipotesi, sarebbe una delusione.”
Le parole di Turati, che suscitarono l’indignata reazione di Salvemini, che stigmatizzò “l’idolatria legalitaria” del gruppo dirigente socialista, sono la palese smentita del teorema del capo di governo che vedeva nelle agitazioni di massa il pretesto colto dai partiti sovversivi, in particolare il socialista, per i loro fini eversivi. Un errore di valutazione che portò alla determinazione di “reprimere qualsiasi moto con la massima energia”, “per mantenere l’ordine a qualunque costo”, essendo “supremo dovere di perseverare in questo sistema di repressione pronta e inflessibile.”
Non mancarono tuttavia, in ambito liberale, voci dissenzienti: all’economista e sociologo Vilfredo Pareto, che denunciava nel giugno del 1896 il carattere di classe del governo (“I privilegiati sanno sempre ricompensare chi bene li serve. Ognuno riceve ciò che più desidera, purchè efficacemente sappia adoperarsi a crescere i pesi del popolo e a favorire le rapine dei ricchi borghesi”), faceva eco nel maggio del 1897, consapevole delle reali condizioni di vita delle masse popolari italiane, soprattutto di quelle del Sud, il meridionalista Giustino Fortunato che sembrava presagire quanto sarebbe potuto accadere: “C’è nell’aria laggiù qualche cosa, di quell’afa che annunzia e che precede gli uragani, qualche cosa, non so, come una tempesta sorda di odii e di rancori”; per non parlare dell’esplicita condanna dei metodi repressivi del governo da parte del direttore del Corriere della sera, Eugenio Torelli Viollier, che il 3 giugno 1898 denunciava all’amico Pasquale Villari il “colpo di stato a beneficio della borghesia contro il popolo, ossia di una classe contro l’altra, dell’oppressore contro l’oppresso”. Benchè tardive, altrettanto illuminanti, sono le ammissioni giolittiane: “A mio parere fu allora un errore il credere che si trattasse di un grande movimento politico e sovversivo, mentre si trattava di un’esplosione di malcontento. Ma perdurava ancora nelle classi dirigenti uno stato d’animo paurosissimo di qualunque agitazione popolare e delle sue manifestazioni, e il governo, rispecchiando tale sentimento, si lasciò andare a provvedimenti eccessivi”.
Queste forti proteste erano per certi versi endemiche nell’Italia del tempo e anche se non esplodevano puntualmente in modo generalizzato, sotto forma di rivolta, in occasione di tempi resi particolarmente difficili da carestia, mancanza di lavoro o aggravio d’imposte, erano tuttavia minacciosamente incombenti e si manifestavano periodicamente con sinistre voci d’insofferenza. Dalle nostre parti le autorità di governo intervenivano per quel tanto che serviva a evitare la ribellione momentanea delle masse disperate, allo scopo di garantire l’ordine pubblico, senza mai mettere in discussione le condizioni oggettive che creavano il malcontento popolare. Così nel 1889 la prefettura e il comune diventano particolarmente solleciti nel dare lavoro ai contadini molfettesi disoccupati e danneggiati dalla guerra doganale con la Francia, che ha bloccato le esportazioni di vino oltralpe, allorquando si diffonde la notizia, pubblicizzata con manifesti affissi in città, che il popolo molfettese ha voglia di fare i conti con chi in loco rappresenta in qualche modo il governo, responsabile del grave disordine che ha affamato la povera gente, e ha scelto per questa prova l’ultimo giorno di carnevale, anche perchè, grazie al travestimento carnevalesco, non si dovrà neppure rendere conto alla giustizia.
A volte esplodevano magari senza un evidente pretesto immediato, come a Ruvo nel 1894, quando la sera dell’otto gennaio, al grido di “Viva la Sicilia, abbasso le tasse”, una turba di oltre duemila dimostranti, tra cui come al solito molte donne e “monelli”, armati per la maggior parte di ronche e bastoni, inaspettatamente, e apparentemente senza motivo alcuno, dà vita a saccheggi, devastazioni, incendi e lascia sul terreno tre morti e cinque feriti quando tenta di assalire la caserma dei carabinieri. Nonostante gli slogan abbiano un chiaro significato politico, il procuratore del re non vi vede un fine politico, ma soltanto il frutto di una attività cospirativa, le cui finalità rimangono oscure: “Sebbene per causa forse di necessarie tasse e aggravii, specie nella classe de contadini, trovasse in questi un germe di malumore, pure solo l’opera e il lavorio occulto e latente di misterioso agitatore potè preparare la sommossa e fare trascendere le plebi alla devastazione e agl’incendi da essi prestabiliti”. Ed è un argomentare monco, che tuttavia lascia intravedere la causa possibile di tale tragica ribellione, che non sarà estranea alle motivazioni dei tumulti del ’98: “Non è la quistione sola del pane che conturba la vita ordinaria di questa nostra popolazione; è maggiormente il fiscalismo, le angherie di agenti del governo”, commenterà un osservatore di Barletta.
Appena il barometro sociale dava segnali di gravi perturbazioni, al prefetto non restava altro che invitare i sindaci ad “adoperarsi vivamente a che in attesa degli invocati provvedimenti [volti a lenire la crisi] si mantenga dalle popolazioni la quiete e l’ordine pubblico. Le dimostrazioni popolari, le riunioni nelle piazze o davanti alle sedi dei pubblici uffizi a nulla possono approdare. Esse invece, pur non scompagnate da retti intendimenti, rischiano di far capo a perturbazioni pubbliche le quali tornerebbero a disdoro di queste civili, operose e tranquille popolazioni.” Questo nel periodo molto critico ‘88-’89, quando si riconoscono le “miserrime condizioni degli operai”, la “situazione molto difficile e dolorosa” e in qualche modo l’immobilismo del governo che risponde picche alle richieste degli agricoltori e degli amministratori della provincia, e si interviene tempestivamente con provvedimenti di corto respiro. Ad Altamura, dove i braccianti affamati in gruppi di sera con ardire girano per le strade e fermano i passanti o si recano alle case dei benestanti allo scopo di chiedere l’elemosina talvolta in tono minaccioso, s’impianta una cucina economica che con 10 centesimi fornisce un’abbondante minestra di legumi e pasta.
Vi è anche chi in siffatta circostanza minimizza la gravità della situazione creata dalla guerra doganale con la Francia, come il sottoprefetto di Barletta nel maggio del 1888:
“Se da una parte la crisi è innegabile - dall’altra parte bisogna riconoscere che non è gravissima, e che se ne esagera alquanto l’intensità da coloro che ne sono danneggiati. Molti e molti, già piccoli possidenti e negozianti, oggi proprietari ricchissimi, ritrassero per vari anni interessi favolosi dai capitali investiti in siffatta industria [enologica]. Ed ora, alla prima contrarietà che lor tocca, vedendosi mancare gli usati esorbitanti guadagni, gridano come aquile, e per poco non muovono lite al governo italiano, perchè non rinnovò il trattato [commerciale] sottomettendosi a tutte le ingiuste pretese della Francia! Molti altri da umili artigiani e contadini, impiegati con lauti compensi e salarii nella industria enologica e suoi accessori, si abituarono tosto a vita signorile, e talvolta superarono gli stessi signori nelle spese voluttuarie e di lusso. S’illudevano che il ben di Dio dovesse sempre piovere su di loro, ma dal sentirsi squilibrati all’essere davvero immiseriti e rovinati, ci corre molto”.
Se questo è lo spirito di governo delle autorità periferiche, si può ben comprendere l’universo di odi e rancori al quale faceva riferimento Giustino Fortunato. Ciò che conta è che le manifestazioni siano dettate “dalla miseria e non da sediziose insinuazioni”, e, per quanto oggetto di ragionevole preoccupazione, sono ammissibili quasi siano il portato fisiologico di una condizione che non si reputa grave in sè, ma per la considerazione soggettiva che i ceti subalterni hanno della realtà, in quanto non sanno misurarla altrimenti se non con il metro delle meschine ragioni dei loro immediati interessi materiali:
“Per ora –aggiunge il sottoprefetto di Barletta nella sua riservata- non sono da temersi perturbazioni dell’ordine pubblico, essendo ben noto a tutte le persone ragionevoli con quanta saviezza, prudenza e spirito conciliativo il Governo del Re abbia agito nelle sue trattative per la rinnovazione del trattato con la repubblica francese. Ma poichè le masse non ragionano e non indagano i motivi di ordine superiore che regolano la politica del Governo, ma invece misurano la bontà di questo alla stregua del benessere materiale che procura, e poichè i sobillatori delle masse non mancano, non potrei con sicurezza affermare che non s’abbiano a tentare dei torbidi e delle dimostrazioni di piazza”.
E non sarebbe servita a far cambiare opinione a queste autorità la calda perorazione del sindaco Gioacchino Poli di Molfetta che sosteneva a tutta voce, in una adunanza di sindaci del febbraio 1889, di sentirsi il rappresentante legale di un popolo affamato, senza che il governo nulla facesse per modificare la situazione, preoccupandosi solo di tenere calme con qualche espediente temporaneo le masse che morivano di fame. Tanto morivano di fame che bastava una nevicata, ancorchè intensa, per rendere “tristissime” le condizioni di vita delle masse molfettesi e per evocare alla mente del delegato della polizia urbana Guglielmo Gallo, nel gennaio 1893, gli altrettanto tristi consigli che la fame suggeriva, mettendoli in relazione con i numerosi furti perpetrati in più punti della città in quel periodo. Tanto morivano di fame che il regio commissario Giacomo Amato nella relazione al ricostituito consiglio comunale del 2 aprile 1902 affermava di essere stato costretto a modificare la tipologia di intervento fino allora seguita, di distribuzione di pasta e carne cruda ai poveri, “disponendo che la carne fosse distribuita cotta insieme alla pasta”, poichè coloro che usufruivano di questo servizio, e ai quali venivano date pasta e carne cruda, “vendevano le razioni per assoluta mancanza di fuoco e di condimento”.
D’altra parte, per quanto concerne Molfetta, gli anni immediatamente successivi al biennio critico 1888/89 sono scanditi da analoghe annotazioni nelle superstiti relazioni sullo stato delle campagne molfettesi, che costituivano comunque, nonostante il processo di industrializzazione, il settore rilevante dell’economia cittadina: nel ’90 “la crisi perdura come prima,, per non dire peggio di prima”; nel ’92 “del ricolto [delle olive] si andrà a ricavarne un terzo appena” rispetto agli standard medi di produzione; nel ’93 un’ostinata siccità compromette il raccolto e i lavori dei campi, ragion per cui “le condizioni delle classi agricole sono abbastanza infelici”, nonostante “al tempo della sporga degli olivi la mercede si sia elevata fino a lire 1.60 al giorno”, ma “tali mercedi messe in rapporto ai prezzi de’ prodotti di prima necessità sono naturalmente scarse”; nel ’96 “i venti sciroccali e le piogge continue” hanno favorito la diffusione della mosca olearia, di conseguenza “la quantità del ricolto è ridotta quasi della metà di quella che si prevedeva”, e il dimezzamento interessa tutta la regione. Si può, infine, aggiungere che nel decennio 1888/97 si registra il 35% dei fallimenti di attività commerciali molfettesi sul totale degli atti conservati, che interessano il periodo 1874/1915; altresì nel biennio 88/89 i fallimenti sono pari quasi al 50% del totale del decennio 88/97.


[Testo pubblicato in Le passioni di sinistra n.2 gennaio-aprile 2003


21/04/2014
CRONISTORIA DI UN ECCIDIO A MOLFETTA - A cura di Arcangelo Ficco