|
LA MIA AMICA EBREA DI REBECCA DOMINO - CAPITOLO PRIMO
Ho capito che le cose sono peggiorate – peggiorate davvero – quando mia madre mi ha detto che quest’anno non possiamo festeggiare il mio compleanno.
Oggi, 10 maggio 1943, compio quindici anni.
Non abbiamo mai festeggiato in modo speciale, soprattutto da quando è scoppiata la guerra, ma la sola idea di non festeggiare affatto mi rende triste.
Quando sento bussare e poi odo la voce di Anja che parla con la mamma, sorrido e mi sento subito meglio. Chiudo il libro che sto leggendo e mi affretto a raggiungere la porta. Anja, Trudi e Jutte sono sull’uscio.
- Seffi, Seffi! – esclama Anja, non appena mi vede – andiamo, andiamo! –
- Dove avete intenzione di andare? – le chiede mia madre, con aria confusa. È stanca. La mamma è sempre stanca, e pensare che fino a non troppo tempo fa era lei a mandare avanti la baracca, com’era solita dire la signora Beckenbauer.
Mio padre era al fronte, allora, lo avevano mandato in Unione Sovietica: non so dove si trovi precisamente, ma quando papà ne parla abbassa il tono di voce, incupisce lo sguardo e dice che si trova “lontano, molto lontano, dove l’arancione del tramonto sembra il fuoco dell’Inferno”.
- Ti prego, mamma – dico, voltandomi verso di lei. Mia madre si gratta un sopracciglio, a forza di farlo sta perdendo peluria.
- Purchè non andiate troppo lontano e tu sia a casa prima dell’oscuramento, Josepha –
- Sono sempre a casa prima dell’oscuramento, lo sai –
Mia madre si limita ad annuire, poi mi unisco alle mie amiche e usciamo. È così caldo che comincio a sudare dopo qualche passo: Anja capitana il gruppetto, come il solito, e ogni tanto avvicina il viso a quello di Jutte, che le da’ delle leggere gomitate nelle costole. E’ ovvio che stanno tramando qualcosa, ma faccio finta di non averlo capito.
Camminiamo lungo la strada, saltellando e chiacchierando, e salutiamo le persone che incontriamo. Li conosciamo tutti, e grazie a mia madre sono a conoscenza delle tragedie di ognuno di loro. Quando raggiungiamo il boschetto alla fine della via, sono così madida di sudore che me lo asciugo con il dorso della mano. Trudi mi guarda con aria allibita ed io scoppio a ridere. Nel frattempo, Anja e Jutte stanno ancora confabulando ma non ce la faccio più a fingere, così mi volto verso di loro.
- Allora? – chiedo – volete dirmi cosa mi state nascondendo? –
- Buon compleanno! – esclamano le mie amiche, all’unisono. Sapevo che stavano organizzando qualcosa del genere, lo facciamo sempre, quando è il compleanno di una di noi: le chiamiamo le “nostre feste a sorpresa” e le facciamo sempre qui, in quest’angolino di verde.
- Non te lo aspettavi, vero? – chiede Trudi.
- No – mento, ma è una bugia a fin di bene. Quello che non mi aspettavo davvero è il regalo. È Anja a tirarlo fuori dal nascondiglio improvvisato, sotto un cespuglio: non c'è un pacchetto, è una semplice scatola di legno.
La prendo, e mio malgrado mi accorgo di essermi commossa. Anche Jutte se ne accorge, perchè comincia a prendermi in giro.
- Seffi e le sue lacrime! –.
Lo ripete sino allo sfinimento.
- Smettila – sbotto, a un certo punto, e lei si zittisce, però non mi va di litigare con il giorno del mio compleanno, quindi la guardo in volto;
- Sei stata tu a intagliare la scatola, non è vero? – chiedo.
Jutte annuisce con aria seria, poi noto che comincia a sorridere. Sorrido anch’io. Apro la scatola e vi trovo tre fogli di carta, ne prendo uno, che porta la firma di Anja. Alzo lo sguardo sulla mia amica, poi lo abbasso sulla poesia. È dedicata a me. Quando ho finito di leggerla, prendo in mano gli altri fogli: sono poesie, o pensieri. Riguardano me, la nostra amicizia, e quest’anno. L’anno in cui tutte e quattro compiamo quindici anni.
Alla fine del pensiero di Trudi c'è una frase che colpisce la mia attenzione, la rileggo un paio di volte, nella mente:
1943. L’anno dei nostri quindici anni, chissà se moriremo così e questa nostra età resterà incisa per sempre sulle lapidi, mentre noi saremo angeli – bambine.
Mentirei se dicessi che non ho paura della guerra. Sono abituata al rumore delle bombe, ormai: la guerra è cominciata nel 1939, quando avevo solamente undici anni.
Mi ha portato via mio padre per mesi e mesi, e me l’ha riconsegnato come un giocattolo rotto, senza una gamba.
Papà va in giro con la sua stampella di legno al posto della gamba sinistra ed io, la mamma e Ralf dobbiamo aiutarlo a camminare in fretta quando dobbiamo rifugiarci nella cantina. Sono abituata al rumore degli spari, alle lacrime negli occhi della gente, a provar pena per persone che prima della guerra trovavo antipatiche, a piangere nel cuore della notte per persone che erano mie amiche e che sono morte in un bombardamento.
Sino a quest’anno, Amburgo non è stata bombardata molto spesso: papà dice sempre che fino a quando sentiremo il fragore di una bomba che cade, saremo al sicuro.
All’inizio, le cose sono cambiate lentamente: Ralf ed io continuavamo ad andare a scuola. Frequentavo il penultimo anno della scuola media, avevo passato bene gli esami al quarto anno della Volksschule e mi piaceva sedermi dietro il banco.
Frequentavo la stessa classe di Anja, Jutte e Trudi, ci siamo conosciute fra una lezione di storia e una di matematica. Pian piano le cose sono cominciate a cambiare anche a scuola: alcuni miei compagni non si sono più presentati e poi si è scoperto che le loro famiglie li avevano mandati in campagna, “al sicuro”.
Questo prima delle evacuazioni di massa degli allievi in età scolare.
Poi i miei compagni ebrei hanno smesso di frequentare la scuola, era una delle tante cose che non potevano e ancora non possono fare. La nostra classe perdeva studenti su studenti e, quando hanno cominciato a far evacuare intere scuole, i miei genitori hanno deciso che io sarei rimasta qui. Che saremmo rimasti tutti assieme. Del resto, Wandsbek è un quartiere residenziale e tranquillo.
Non ho smesso di istruirmi, però: le mie amiche ed io, insieme a un gruppetto di altre ragazze, frequentiamo le lezioni presso la dimora privata della signorina Abt.
Anche se è una signorina, la nostra insegnante ha superato i cinquant’anni, ha dato un figlio e due nipoti alla guerra, uno è ancora disperso. A dispetto di questo, ha sempre il sorriso sulle labbra e dice in continuazione che siamo noi giovani a darle speranza.
Speranza. A volte, sono speranzosa: penso che la guerra finirà, penso che le cose non potranno andare peggio di così, ma poi il cielo ricomincia a lasciar cadere le bombe, sento i rumori degli aerei, le grida della gente e mi rannicchio contro la parete della cantina quando odo la pioggia di bombe.
Ci sono delle volte in cui penso che rimarremo bloccati lì sotto, com'è successo alla signora Bach e alla sua famiglia: loro abitavano nel centro, la loro casa è caduta come se fosse stata costruita con del cartone. La signora Bach, i tre figli e il marito erano in cantina. Li hanno liberati tre giorni dopo. Nella nostra cantina ci sono dei materassi vecchi e umidi, un po’ di libri e giornali della mamma, e delle torce.
Spesso però passiamo il tempo senza far niente: i libri e i giornali se ne stanno lì a prendere la polvere e noi ascoltiamo il rumore delle bombe che cadono.
~
Mangiamo con una piccola candela al centro della tavola, come ogni sera. Mandiamo giù i Kartoffelpuffer senza dire niente. Un tempo, prima della guerra, parlavamo durante i pasti, adesso ognuno mangia in gran fretta perchè il cibo scarseggia e non sapremo mai quando sparirà completamente dalle nostre tavole.
- Non finirà mai del tutto – non fa altro che ripetere papà, però mangia in fretta a sua volta. Appena ha svuotato il piatto, Ralf parla di Hitler. Ne sento parlare così spesso, ormai, che a volte penso che sia un famigliare, come un vecchio zio che non ho mai visto di persona perchè abita lontano.
Mio fratello maggiore fa parte della Gioventù Hitleriana, così come mio padre fa parte del partito. La differenza è che Ralf ha scelto volontariamente di unirsi alla Gioventù Hitleriana mentre papà è stato obbligato a unirsi al partito: ormai, sappiamo tutti cosa succede a quelli che non lo fanno.
Papà avrebbe potuto perdere il lavoro e, anche se si tratta solo di un umile mestiere come il calzolaio, abbiamo bisogno dei soldi che guadagna.
Io non faccio parte della Gioventù Hitleriana, non ho mai voluto farlo: ho litigato spesso con Ralf a questo proposito, lui dice che sono una stupida, come la maggior parte delle femmine, dice che non capisco che Hitler solleverà le sorti della Germania, che la sta ripulendo dalla feccia e via dicendo. Prima che si unisse alla Gioventù Hitleriana, mio fratello era un ragazzetto confuso, esattamente come me. Adesso capisco che a quegli incontri gli ripetono sino allo sfinimento quello che sentivo dire a scuola, che rimbalza ancora di bocca in bocca lungo le strade, che leggo sui giornali, guardo nei film o ascolto alla radio.
Quando abbiamo finito di cenare, mio padre va a dormire e Ralf si chiude in camera sua. Non so cosa fa quando si rintana nella sua stanza da letto, tutto solo: le tende nere sono chiuse, e ascolto i rumori della notte mentre lavo le stoviglie.
La mamma siede al tavolo, le mani sul volto. Lo fa sempre quando pensa a qualcosa che la preoccupa: le tessere annonarie, la frequenza con cui stanno aumentando i bombardamenti, un conoscente rimasto ferito o ucciso, la gamba di mio padre, o semplicemente la guerra in generale.
Io ho imparato ad affinare l’udito, a causa dell’oscuramento: sento una voce provenire da fuori, poi odo dei rumori. Mi volto verso mia madre. Ormai sappiamo distinguere il boato delle bombe che cominciano a cadere: queste devono essere ancora lontane, perchè il rumore arriva ovattato alle nostre orecchie.
- In cantina! In cantina! – grida Ralf, aprendo la porta di camera. La mamma corre da papà, spalanca la porta e lo aiuta ad alzarsi dal letto.
Il cuore mi batte all’impazzata nel petto: me ne sto qui, accanto ai piatti che sino a un secondo fa stavo lavando, poi Ralf mi passa accanto e apre la porta. L’aria calda della notte entra in casa. Infiliamo in fretta le maschere antigas.
- Prendi un’altra torcia, Seffi! – mi ordina la mamma – e qualcosa da mangiare –
C'è sempre qualcosa da mangiare in cantina, e di solito si tratta di pane, ma quando cadono le bombe, la mamma mi dice sempre di prenderne ancora. Lo faccio: salgo in punta di piedi e raggiungo la credenza, prendo del pane, del formaggio e un po’ di burro, poi seguo la mia famiglia fuori di casa. Come quasi ogni notte, intravedo le figure dei nostri vicini: non c'è luce nella strada, pertanto i fasci delle nostre torce tagliano l’oscurità.
Qua fuori il rumore è così assordante che mi accorgo di star picchiettando con i piedi sul terreno, per incitare Ralf ad aprire la botola della cantina.
Non appena mio fratello ci riesce, scendiamo all’interno e richiudiamo la botola: papà accende un paio di torce, io mi siedo sul bordo del mio letto.
Ci sono ancora le coperte che abbiamo buttato giù un paio di notti fa. Ho sempre pensato che, da qua sotto, sia più difficile capire la distanza reale delle bombe: è come se ogni rumore esterno fosse soffocato.
Restiamo in silenzio, immobili: papà e mamma siedono sul bordo del loro letto, la mano di mio padre poggiata sul dorso di quella di mia madre, Ralf si passa le mani fra i capelli, seduto su un vecchio sgabello.
Non possiamo far altro che aspettare.
Aspettare che le bombe smettano di cadere dal cielo, aspettare che colpiscano la nostra casa, aspettare di sentire il frastuono di un intero edificio che crolla e che ci seppellisce qua sotto.
In poche parole, semplicemente aspettare.
23/04/2014
|
|
Rubrica a cura delle scrittrici Sofia Domino e Rebecca Domino |
|
|