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CRONISTORIA DI UN ECCIDIO A MOLFETTA: I bassifondi della città erano malcontenti - parte 3
PARTE 3 METTERE
I fatti del 1° maggio di Molfetta sopraggiungono, quindi, al termine di un decennio caratterizzato da profondo disagio sociale, per l’effetto combinato dei riflessi della guerra doganale con la Francia, della strisciante crisi agricola, della conseguente crescita della disoccupazione, della volontà del governo di risanare il bilancio, inasprendo l’imposizione indiretta e riducendo di molto le spese di carattere sociale. Un chilo di pane, anche quando viene venduto a prezzo politico, lo si è detto, assorbe più di un quinto del salario medio giornaliero di un lavoratore, quando lavora. Che la situazione fosse esplosiva lo doveva pur pensare l’amministrazione comunale del tempo, la quale già nel gennaio ’98 si era attivata “per evitare [che] il malumore che si [era] manifestato in altre regioni pel caro prezzo delle farine, scoppi[asse] anche [a Molfetta]”. Essendo diminuito con il decreto del 23 gennaio di 2.50 lire al quintale il dazio sul grano d’importazione, non avendo avuto successo “le pratiche fatte con gli esercenti degli stabilimenti per la macinazione dei cereali e con i venditori di farine per la riduzione del prezzo di detto genere, i quali anzichè accondiscendere piuttosto esigevano un aumento”, allo scopo di “sventare la coalizzazione” degli esercenti, che intendevano speculare sul prezzo della farina, l’amministrazione aveva deciso di “aprire uno spaccio normale di farina, fino a quando non si [fosse] conseguita una riduzione dei prezzi”, vendendola a 39 centesimi il chilo.
Ugualmente tempestivo fu l’intervento dell’amministrazione nell’aprile, quando “per evitare qualsiasi funesta evenienza”, prima ancora che s’iniziasse la stagione dei tumulti in provincia, la giunta il 22 aprile deliberò l’acquisto della farina, la panificazione e, come s’è detto, la vendita del pane a prezzo politico, con cospicuo impegno finanziario da parte del comune e con guadagno di chi riuscì a sottrarre 47 q. di farina e a frodare 22 q. di pane, con vantaggio pari nell’insieme a circa 3000 lire del tempo. Se poi a ciò si aggiunge magari la bassa qualità del prodotto della panificazione, la farina che sapeva di muffa e quella che dava pane nero, nonostante fosse stata pagata per dare pane bianco, le strane operazioni per cui si inviano 13 quintali di pane a Bari il 28 aprile e il 29 si risponde a precisa richiesta della sottoprefettura sulla quantità di grano disponibile sulla piazza molfettese: “Provvista grano pressochè esaurita” e nello stesso giorno si telegrafa al prefetto: “Farina disponibile presso questi mulini appena 1500 q. circa da bastare per dieci giorni. Questa amministrazione attivasi per acquisti fuori, finora senza alcuno risultato”, si intende quanto la situazione potesse essere gravida di pericolose tensioni, sebbene la classe dirigente locale pensasse di aver fatto il possibile per scongiurare il peggio.
Il fatto è che il pane venduto a prezzo politico non basta più, evidentemente nelle masse popolari molfettesi, e non solo molfettesi, va crescendo una coscienza di classe che se non proprio espressione di un chiaro progetto politico è tuttavia il segno di una contestazione più radicale del sistema di governo: il paternalismo filantropico è diventato insufficiente per risolvere le contraddizioni sociali divenute endemiche. La controprova è evidente nelle motivazioni della richiesta fatta dall’amministrazione alle autorità militari, dopo i moti, perchè fosse presente stabilmente in città una truppa di 500 soldati, soprattutto come deterrente per impedire che i lavoratori adoperassero impunemente l’arma dello sciopero, “non senza contare l’esistenza di molti operai ed il propagarsi fra di essi di idee troppo avanzate”. Le masse popolari ardiscono aprirsi nuovi spazi di libertà che fanno incrinare fortemente il sistema della legalità costituita. Ad Andria nei giorni dei tumulti non si registrano “nè chiassi nè dimostrazioni di piazza”, perchè i contadini a frotte si recano nelle campagne dei privati e vi lavorano, anche quando non ve n’è bisogno, la sera poi “a qualunque costo” pretendono il pagamento dei lavori fatti.
Analogamente vent’anni dopo, in un momento altrettanto critico, il commissario prefettizio impegnerà considerevoli somme straordinarie per promuovere lavori pubblici intesi a lenire la massiccia disoccupazione, non solo allo scopo di “garantire la pace sociale”, ma anche e soprattutto per evitare che la spontanea iniziativa dei contadini poveri, motivata dalle sacrosante ragioni della sopravvivenza, aprisse nuovi spazi di libertà, mettendo in discussione la legalità costituita, con conseguenze politiche rilevanti:
“Le Signorie Loro –afferma il commissario prefettizio nella relazione del 3 novembre 1920- ricorderanno le gravi preoccupazioni della cittadinanza nei primi giorni del febbraio e marzo [1919], quando la gran massa dei contadini, col nobile scopo di procurarsi col lavoro i mezzi di sussistenza, entravano nelle proprietà private per coltivarle, procedevano all’allargamento o alla creazione di vie urbane demolendo muri di giardini e fabbriche rustiche che intercettavano il passaggio sulle stesse vie. Non ci era altro rimedio per evitare danni alle persone ed alle proprietà se non quello di dare occupazione al maggior numero di contadini e braccianti.”
Dunque è questo il senso nuovo delle cose, intuito da Salvemini e dalle forze reazionarie, quello della compatibilità del sistema socio-politico con gli spazi di libertà e democrazia, non più circoscritti nei limiti di una legalità che lascia impregiudicati i rapporti di potere: il rispetto delle leggi diventa vano e incomprensibile esercizio, quando sono costantemente in gioco le ragioni della sopravvivenza, quando il sistema fiscale e le scelte del governo cristallizzano e legittimano iniquità e soprusi; di qui la furia devastatrice contro edifici che sono considerati il simbolo della perpetuazione della miseria, di qui l’inferocita reazione al sopraggiungere della truppa considerata strumento di sopraffazione. “Pane! pane! abbasso i pesi!” gridano davanti al circolo socialista, nel pomeriggio del 1° maggio ’98, facendo eco a tanti altri in altre parti d’Italia, al momento del prologo, i protagonisti di questa tragica storia, i cui tratti non sono tutti nettamente definibili.
Il pretesto della rivolta è dato dal divieto del delegato di pubblica sicurezza di consentire l’inaugurazione della bandiera del circolo socialista il 1° maggio 1898. “La bandiera! La bandiera!” grida “un’enorme folla di ragazzi” raccolta davanti al circolo socialista, ma la bandiera –racconta un anonimo corrispondente di Salvemini- è stata portata via proprio per evitare ogni pretesto che possa dar luogo ad incidenti. Gli animi tuttavia sono molto riscaldati, riscaldati dal vino: “una miriade di fischi e di gridi elevano al cielo quei villani … ben avvinazzati.” Uno di essi prende una pezzuola rossa e grida: “abbasso i pesi! pane! pane!” e tutti ripetono le stesse parole, anche “alcuni uomini [sopraggiunti], ubriachi pure.” Vani sono, secondo la predetta fonte, i tentativi dei soci del circolo di placare gli animi con argomenti legalitari, si riesce solo a evitare che si diffonda la minaccia di bruciare il municipio. L’assembramento poi comincia a sciamare per il Borgo e qui si verifica l’episodio che probabilmente segna la svolta tragica della giornata: il corteo dei ragazzi si imbatte nel delegato di pubblica sicurezza, nel maresciallo dei carabinieri e nel capitano dell’84° e il delegato strappa –racconta il sindaco Mauro De Nichilo- “un faccioletto rosso da una mazza che formava la bandiera portata da un giovanotto.” Il Borgo si popola allora di una “fitta agglomerazione di gente dei più bassi fondi sociali e cominciò una sassaiuola” che rese inevitabile l’intervento della truppa. Intanto una parte dei dimostranti si diresse verso l’ufficio centrale del dazio e questa volta, al dire del De Nichilo, i dimostranti non si limitarono a lanciare sassi e insulti, partì anche un colpo di revolver che rese la tensione tragicamente esplosiva. I soldati fecero fuoco: “innanzi al marciapiede del giardino Garibaldi –testimonia la madre di Salvemini- ne cadevano come tanti uccellini: il sangue di tanti innocenti era un orrore”. Ma la giunta municipale del tempo, nella tornata del 21 maggio 1898, si sentì ispirata da “un sentimento di vera giustizia verso questo delegato di P[ubblica] S[sicurezza] Sig. Raffaele Positano”, nell’emettere nei suoi confronti l’attestazione “perchè [gli fosse] data una ricompensa al valor civile”, “per gli atti di coraggio e valore dallo stesso compiuti in occasione del moto popolare del 1°Maggio corrente mese”. Proprio quel Positano che, vietando l’inaugurazione della bandiera socialista, aveva in qualche modo dato fuoco alle polveri e poi, nel pomeriggio, in contrasto con il parere del maresciallo dei carabinieri, aveva voluto che la truppa fosse in piazza, ben sapendo la reazione che avrebbe potuto suscitare.
I fatti di Molfetta ebbero un inevitabile seguito giudiziario. Furono arrestati 45 molfettesi. Di essi nove erano socialisti, accusati di aver fomentato i moti, ma poi tutti assolti perchè quei socialisti, a parere del pubblico ministero, appartenevano “alla più innocua famiglia socialista”. Anche gli altri 36 imputati furono assolti dal reato di istigazione a delinquere, invece per i restanti reati di oltraggio a pubblico ufficiale e di violazione della legge di pubblica sicurezza, oltre ai socialisti ne furono assolti 17, mentre 19 vennero condannati a pene diverse, fino a un massimo di tre anni.
Ma al di là della verità giudiziaria, che comunque potrà arricchire il giudizio storico quando sarà possibile rileggere le carte del processo, soprattutto per quanto concerne l’esame della dinamica dei fatti, quale valutazione si può ricavare dalle fonti disponibili, data ormai per scontata l’assoluta estraneità dei socialisti, e quindi la mancanza di una premeditata azione sovversiva? Si può rispondere che il sanguinoso episodio del 1° maggio da un lato richiama gli aspetti tipici di una jacquerie e dall’altra mostra come il malcontento dei bassifondi sociali tenda a tradursi in una volontà politica, per quanto istintiva, intesa ad affermare nuovi contenuti di governo, spazi di cittadinanza fortemente radicati nei bisogni di giustizia e di modificazione dei rapporti di potere nella società, racchiusi in un simbolo inequivocabile.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E ARCHIVISTICI ESSENZIALI
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Archivio di Stato di Trani, Corte d’Assise, b.137 f.764; Pandetta dei fallimenti.
[Testo pubblicato in Le passioni di sinistra n.2 gennaio-aprile 2003]
10/05/2014
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CRONISTORIA DI UN ECCIDIO A MOLFETTA - A cura di Arcangelo Ficco |
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