PARLARE IN PUBBLICO - 1^ parte
Quando riesce bene è una delle esperienze più appaganti e arricchenti. Quando invece la sola idea del doverlo fare mette ansia, il sottoporvisi è una delle esperienze relazionali più penose poichè chiama in gioco l’autostima, la sicurezza in se stessi, il giudizio degli altri… Tuttavia oggi è quasi impossibile non ritrovarsi a dover parlare almeno ogni tanto davanti a più persone, anche solo in contesti informali. Perciò è fondamentale imparare a non essere sopraffatti dall’ansia.
Le parole del parlare in pubblico. “La sola idea di dover parlare alla riunione mi atterrisce”, “Ho paura di perdere il filo del discorso e di fare una figuraccia”, “Mi concentro su quello che devo dire e dimentico il pubblico”.
Parlare in pubblico, davanti a un gruppo più o meno vasto di persone, prima o poi può capitare a chiunque. Dall’interrogazione in classe alla cena di gruppo in cui ci si può ritrovare a raccontare qualcosa mentre tutti gli altri ascoltano in silenzio, da una riunione di lavoro in cui si deve proporre e convincere a un corso nel quale bisogna esporre le proprie idee o domande davanti a numerose persone, e via dicendo. Il timore che non ci “venga la parola” o la preoccupazione di non essere capiti si impadronisce di noi. Così si inizia a balbettare, l’eloquio si riempie di pause troppo lunghe, la voce si fa tremolante, si commettono lapsus verbali, si creano vuoti nel discorso, con risultati talora imbarazzanti, a volte lesivi della propria autostima.
Gli errori più comini. “A volte è sufficiente eliminare due errori per rendere la nostra esposizione più agevole per noi e accattivante per chi ci ascolta”.
Il primo errore da evitare è utilizzare modelli comunicativi standard: ognuno di noi infatti ha un modi di esprimersi assolutamente personale, che non può – e non deve – prescindere dal suo modo di essere, dalla sua corporeità e dal momento che sta vivendo. È dannoso perciò sia tentare di “star dentro” a modi di parlare considerati ideali o di modo, sia imitare lo stile pur efficace di un altro. Il secondo errore è basarsi completamente sulle caratteristiche di chi ascolta, sulle sue esigenze vere o presunte, sulle sue aspettative o su eventuali giudizi che potrà emettere. Nel momento stesso in cui ci poniamo il problema di piacere, di ottenere l’approvazione e di riuscire a “far passare” a ogni costo la nostra opinione, diventiamo schiavi di ciò che l’altro può pensare e dunque influenzabili, ansiosi, non spontanei. Il risultato è la perdita di efficacia del nostro parlare. Se si è troppo impegnati a captare i segnali di conferma o di disapprovazione che arrivano dagli astanti, è sufficiente che l’altro faccia uno sbadiglio o aggrotti le sopracciglia per farsi travolgere dall’insicurezza o dal dubbio: “Sto dicendo sciocchezze o banalità?”, “Non sono abbastanza convincente?”, “Non sono abbastanza chiaro?”, “Sto sbagliando approccio?”, “Mi sta giudicando goffo o incapace?”. Dopo tali pensieri il ritmo del discorso si altera, la gola si stringe, l’ansia prende il sopravvento e fa perdere il filo del discorso. A questo punto, se non si mantiene un po’ di lucidità, il tentativo di rimediare (con battute infelici, parole incongrue, eccessi di spiegazione e aggrovigliamento di concetti) può diventare ancora più controproducente.
12/01/2015
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