La varietà dei semi
Circa 9000 anni fa, gli esseri umani cessarono di spostarsi per cercare il cibo raccogliendo piante spontanee, pescando e cacciando e diventarono agricoltori, scelsero ambienti in cui fermarsi e cominciarono a seminare piante e allevare animali.
Cominciò allora la “domesticazione”. Gli uomini selezionarono specie animali e vegetali che si riproducevano più rapidamente, erano più prolifiche e resistevano meglio ai cambiamenti dell’ambiente. All’inizio, scelsero le varietà e le razze migliori senza puntare a omologarle: sapevano, infatti, che non avrebbero resistito ai cambiamenti degli ambienti. Questa doppia spinta, da un lato all’omologazione e dall’altro alla diversificazione, è arrivata fino ai giorni nostri.
Negli anni della Rivoluzione verde, la FAO, che l’aveva promossa per ridurre la fame nel mondo, mandò alcuni tecnici nella zona di Oaxaca, in Messico (dove il cibo di base è il mais) per chiedere ai contadini le caratteristiche ideali della “varietà ottimale”.
Le risposte di uomini e donne furono diverse: i primi chiesero che il mais avesse una precisa morfologia; le donne risposero che volevano varietà diverse fra loro, che dessero ogni anno una buona produzione resistendo agli eventi climatici.
Questo comportamento era per loro naturale e tramandato da millenni, ma in contrasto con le linee guida della FAO che puntavano alla “ottimizzazione” di piante e animali. Era un modo di operare che derivava dal cosiddetto “ideotipo di Donald”, un selezionatore scozzese che proponeva di ottimizzare le diverse parti delle piante una a una, costruendo uno schema ottimale di ogni pianta a prescindere dall’ambiente. Molte varietà prodotte seguendo questo metodo si rivelarono buone dov’erano state selezionate e permisero di aumentare la quantità di cibo disponibile riducendo il numero degli affamati.
In seguito, però, la situazione è regredita, perchè molte varietà non si adattavano alle diverse condizioni ambientali; allora cominciò, anche in zone in cui in precedenza erano sconosciuti, l’uso di fertilizzanti e pesticidi chimici, così come delle macchine agricole, che avevano (e hanno) prezzi non raggiungibili per le comunità contadine povere.
Le grandi imprese, inoltre, cacciarono (e cacciano) i piccoli agricoltori dalle terre e le convertono a soia, mais, cotone e colza, ora geneticamente modificati. Spesso le multinazionali sono le stesse che hanno introdotto il brevetto industriale anche sugli esseri viventi e hanno brevettato anche molte piante non OGM, ma senza dubbio importanti proprio per la loro variabilità.
Pagheremo cara la carenza di biodiversità: il cambiamento climatico sta accelerando e il cibo dipende dai semi brevettati da poche grandi imprese. Per fortuna ci sono movimenti contadini – e non solo – che contrastano con forza questo andamento.
di Marcello Buiatti
20/01/2015
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