La Terra: diritto o merce di scambio? Il Land grabbing
Uno degli argomenti trattati anche in occasione di Terra Madre, evento globale che si è tenuto a Torino dal 25 al 29 ottobre scorso, è stato certamente il land grabbing: un tema di portata mondiale, come testimonia il grande interesse che suscita anche sul web per le sue ricadute geografi che, sociali, economiche e politiche. Letteralmente, land grabbing significa “accaparramento della terra”; secondo la Fao, questa pratica rappresenta un moderno colonialismo. È un fenomeno che ha avuto origine all’inizio degli anni Duemila e che ha avuto un notevole incremento verso la fine del 2006, in concomitanza con una serie di circostanze tra loro concatenate: la crisi economica, la scarsità dei raccolti a causa di condizioni climatiche sfavorevoli e il conseguente aumento dei prezzi dei prodotti agroalimentari. Tutto questo ha portato grandi
aziende private, ma anche enti governativi, a cercare nuove terre coltivabili che fossero fertili, ma nel contempo accessibili, a basso costo e lavorate da una manodopera altrettanto economica. La scelta è quindi caduta sui paesi in via di sviluppo, in primis Africa, America Latina e Sud Est asiatico, che hanno ancora a disposizione ampie distese coltivabili.
Queste rappresentano una risorsa per tutti quei Paesi, come la Cina, che, in vista dell’aumento della popolazione, piuttosto che coltivare all’interno dei propri confini, per varie ragioni importano derrate.
Ma l’esplosione del fenomeno è anche strettamente legata alla richiesta di biocarburanti, che derivano da materia prima agricola ora coltivata su ampie distese le quali, per secoli, sono invece state la fonte di sostentamento delle popolazioni locali. Stando a quanto emerso durante Terra Madre, negli ultimi sei anni gli investitori europei e asiatici hanno acquisito 86 milioni di ettari di terreni (5 volte la superficie dell’Italia), utilizzati per produrre beni che non saranno distribuiti
nei mercati locali, ma andranno esportati.
Uno dei problemi causati dal land grabbing è proprio questo: espropriando questi terreni alle popolazioni locali, viene meno la loro principale fonte di sostentamento. Le comunità locali in alcuni casi vengono sfruttate come manodopera a basso costo, in altri sono costrette addirittura ad abbandonare la “loro” terra e a trasferirsi ai margini delle città, in estrema povertà, senza fonti di reddito.
Le sempre più consistenti comunità povere di questi Paesi diventano sempre più dipendenti dagli aiuti dei Paesi ricchi, senza poter sviluppare sane economie locali e autonome forme di sostentamento. Oltre a ciò, il land grabbing determina anche notevoli conseguenze sull’ambiente, in termini di perdita di biodiversità, di deforestazione e di consumo delle risorse naturali che vengono sfruttate in maniera intensiva.
Com’è possibile che ciò avvenga? Non esistono atti di proprietà che impediscano questa brutale espropriazione? Di fatto no: nell’Africa rurale non funziona certo un ufficio del catasto, non esistono atti di compravendita o documenti che attestino la proprietà dei terreni che le comunità locali hanno sempre coltivato, tramandandole di generazione in generazione, manca la documentazione ”moderna” di diritti reali sui fondi agricoli spesso condotti insieme da un intero villaggio. Dal punto di vista delle “carte bollate”, questi terreni risultano coltivabili, ma “di nessuno” e, quindi, liberamente vendibili dalle autorità. I governi locali, spesso caratterizzati da grande instabilità politica, non sempre esenti da corruzione, svendono i terreni o li affittano a prezzi irrisori con accordi a lungo termine (anche di 99 anni): è con loro che aziende ed enti governativi stranieri stipulano i contratti attraverso i quali si appropriano, per sempre o per lunghissimo tempo, di terreni fertili e ricchi di risorse che vengono così sottratti alle economie locali.
Nella migliore delle ipotesi i locali accettano questa pratica perchè hanno disperato bisogno di risorse economiche immediate, o perchè allettati dall’idea di attrarre capitali stranieri, magari contando sulla costruzione di infrastrutture che non sarebbero in grado di realizzare da soli. Ma il vantaggio è maggiore per chi acquisisce i terreni: la spesa per il terreno e la manodopera è molto contenuta, ma i prodotti si vendono a prezzi adeguati ai mercati occidentali, con margini assai elevati.
Al giorno d’oggi il land grabbing non riguarda più solamente i paesi di Africa, America Latina e Sud Est Asiatico, ma anche alcuni dell’Est Europa e, in qualche caso, anche Francia, Austria e Germania. Talvolta al cambio di proprietà si abbina un cambio d’uso: i terreni agricoli vengono espropriati per estendere le città o per far posto a strade o centri commerciali, addirittura a stadi,
com’è accaduto a un agricoltore francese che, come racconta il magazine on line greenme.it, da ben sette anni sta resistendo all’esproprio dei terreni sui quali la sua famiglia vive da generazioni e sui quali si vorrebbe costruire uno nuovo tempio del calcio. Il suo non è l’unico caso di opposizione all’esproprio citato in rete, dove il fenomeno del land grabbing ha suscitato un ampio dibattito. Oltre che delle proteste di alcune comunità in Africa, greenme racconta di quelle che in ottobre
alcuni agricoltori cinesi hanno messo in atto contro la sottrazione di terre per la costruzione di strade. Per contrastare il progetto, i contadini hanno ricoperto le strade di mais (non solo protestando, ma anche essiccando rapidamente i chicchi di mais grazie al calore dell’asfalto). Tra le molte testimonianze di opposizione al land grabbing ne segnaliamo una di casa nostra, in località S’Arrieddu a Narbolia (in Sardegna), i cittadini si sono opposti all’esproprio di terreni per la costruzione di un impianto di serre fotovoltaiche.
Bibliografia:
www.greenme.it
www.salonedelgusto.com
temi.repubblica.it
17/03/2015
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