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BIANCO O NERO

BIANCO O NERO


Mi sono chiesta a lungo cosa vi avrei raccontato ora che sapete così tanto del libro a cui mi sono dedicata per quattro anni più altri quattro di immaginazione e uno, il 2004, di una bozza di cinquanta pagine persa in una formattazione.
Una parte di me, quella colta e spocchiosa, avrebbe voluto scrivere un lunghissimo articolo sui riferimenti filosofici di The Stronghold Saga. Ce ne sono tanti, alcuni più evidenti, altri davvero per esperti o maestri del settore, ma poi mi sono resa conto che vi servirebbe il mio stesso background per capirmi a pieno e, anche se lo aveste, probabilmente vi sareste annoiati. Questo non è un saggio, ma un articolo su una pagina per un pubblico generico. È mio dovere essere breve, semplice, chiara e intrattenitrice, non farvi una lezione sulla libertà sartriana o sulle nobili verità buddiste. Probabilmente un giorno deciderò di tediarvi con questo argomento, ma non è questo il giorno (citazione del Ritorno del Re, giusto perchè il Natale alle porte mi fa sentire tolkeniana a mille).
Di che parleremo oggi? Del bianco e del nero. Tutto qui? Assolutamente tutto qui, un discorso semplice che tanto semplice non è.

Come mi dice spesso qualcuno, io non so essere diplomatica. Per me o sei con me o contro di me, o sei bianco o sei nero, o sei amico o non lo sei, e, se non lo sei, sei mio nemico. Un po’ alla Katniss Everdeen, un personaggio che adoro di una saga distopica splendida che ha visto il suo epico epilogo cinematografico il mese scorso.
In particolare sulla morale e sulle amicizie non ho dubbi sul valore del bianco o nero. Giusto o sbagliato, non c’è il tollerabile. Chi mi conosce benissimo, giusto una manciata di persone, sa che per me un amico è qualcuno per cui farei qualsiasi cosa e che per me farebbe qualsiasi cosa. Chi non rientra in questa categoria è conoscente, e in genere i conoscenti mi si ribellano contro a un certo punto perchè li smaschero nel loro essere egoisti, opportunisti, primedonne e manipolatori di varia natura. Non ci sono sfumature di grigio da cogliere, nemmeno una.
Alla prima stesura di The Stronghold Saga, quando erano solo cinquanta pagine da un diverso punto di vista e narrate in un momento diverso della storia del mondo, era così che la vedevo: i buoni contro i cattivi, niente di più facile. All’epoca quella che ritenevo una calamità naturale o semplice sfiga fece in modo che il progetto morisse lì. Oggi mi rendo conto che forse fu un favore del destino.

Quando poi mi sono ritrovata a riprenderlo, ben cinque anni dopo, avevo vent’anni ed ero cresciuta come se ne fossero trascorsi cinquanta. In quel prologo che voi avrete letto mi resi conto di non poter più mantenere nè la visione del bianco o nero nè la prima persona narrante. C’erano sfumature da cogliere, punti di vista da cambiare, personaggi da modificare o creare ex novo, un genere da interpretare in un modo diverso. Non c’è nessuna Contea, nessuna Taverna dell’Ultima Casa da cui partire perchè l’inizio di Light & Hope è la fine della sua storia precedente. Mi resi conto di dover far immergere ogni singolo personaggio in un intingolo di egoismo, opportunismo, narcisismo e manipolazione emotiva e/o fisica di diverso tipo e lasciarlo per un tempo variabile da uno all’altro. Nessuno, nemmeno il personaggio più buono è “buono quanto ci si aspetterebbe da un eroe”. In The Stronghold Saga, in fondo, non ci sono nè eroi nè supercattivi. Sono tutti sfumature di grigio, da molto prima che le Cinquanta sfumature diventassero famose. Tutto questo perchè dovevo renderli reali, umani, credibili, amabili o detestabili, ma non neutri. Penso che il più grande dolore di uno scrittore sia passare nell’indifferenza dei propri lettori. Essere odiati fa parte del gioco, quando si scrive si fanno scelte difficili perchè non tutte le creature di inchiostro possono avere quello che vogliono. Ma non essere ricordati nemmeno per uno dei nostri figli immaginari, ecco, quella sarebbe la vera tragedia.
Credo che con la mia trilogia non sia successo. In molti amano Mark, in molti detestano Leonard, di Layana tutti hanno un’opinione e tutti si ricordano, anche se non sempre in modo positivo.
Quindi, scrivendo, dopo molto penare e correggere, ho trovato il modo di essere diplomatica e distribuire gioie e dolori, pregi e difetti, speranze e delusioni.

Per chi ha letto una certa scena finale: sì, il bianco e nero c’entra anche con quello. Così come il mio ribaltare il punto di inizio della storia, anche la sua fine è un inizio di qualcosa per scelta deliberata. Non per niente l’ultimo capitolo si intitola “La fine e l’inizio”. Quindi è stato un finale premeditato sin dal prologo del 2009, niente è stato lasciato al caso. Almeno credo, voi che ne dite?


13/12/2015
Rubrica a cura della scrittrice Rossella Modugno