5° appuntamento con la rubrica legale curata dall'avvocato Mariano Caputo: ''Il possesso''
Il potere sulla cosa che si manifesta nell'esercizio della proprietà o di altro diritto reale. A norma dell'art. 1140 c. c. il possesso dev'essere inteso come il potere sulla cosa che si manifesta nell'esercizio della proprietà o di altro diritto reale.
A norma dell'art. 1140 c. c. il possesso dev'essere inteso come il potere sulla cosa che si manifesta nell'esercizio della proprietà o di altro diritto reale, l'apparenza dell'esercizio di un diritto reale. Esso può essere sia titolato che non titolato, ossia può essere sorretto anche da una giustificazione giuridica oppure esserne privo.
Da più parti ci si è domandati per quale motivo l'ordinamento ha apprestato tutela ad una situazione che può anche essere originata da un'azione illegittima di spoglio; in realtà ciò che si intende garantire è l'effettività del rapporto instaurato dal possessore con la cosa.
Tradizionalmente, fin dalle prime riflessioni in materia, si è affermato che due sono i presupposti essenziali perchè si possa parlare di possesso giuridicamente rilevante: il c.d. corpus, il potere di fatto esercitato sul bene, e il c. d. animus possessionis, l'elemento psicologico, ossia l'intenzione del soggetto di tenere la cosa come propria; è pertanto necessario che concorrano entrambi gli elementi menzionati.
Perchè possa concretamente ravvisarsi una relazione tra la persona e la cosa, è ovviamente necessario che la prima tenga un comportamento positivo, oggettivamente apprezzabile; in quest'ottica non potrà perciò rilevare l'inerzia del soggetto, che pure rappresenta in astratto una forma di esercizio della proprietà, e neanche i diritti nudi e le servitù negative.
Proseguendo nella lettura dell'art. 1140 c. c., si rileva la precisazione che si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona che ha la detenzione della cosa: emerge, dunque, una distinzione tra possesso immediato e mediato.
Quest'ultima situazione, generalmente chiamata detenzione, invero, non deve essere confusa con il possesso vero e proprio, in quanto difetta innanzitutto del requisito dell'animus. Infatti la detenzione di una cosa si fonda sempre sulla titolarità di un diritto personale di godimento (es. contratto di locazione) o su un'obbligazione (es. contratto di deposito), tanto che , perchè la detenzione possa evolversi in possesso, è necessario che intervenga la c. d. interversio possessionis, attraverso l'opposizione manifestata dal detentore al possessore, con cui il primo dichiara di iniziare a possedere la cosa a nome proprio. Ciononostante, una tutela possessoria è accordata dal legislatore anche al detentore, purchè non sia tale per mere ragioni di ospitalità o di servizio, mediante l'esercizio dell'azione di reintegrazione.
Un'altra tipologia di relazione con la cosa che non vale a configurare il corpus richiesto dalla legge è quella degli atti di tolleranza, cioè gli atti compiuti con l'altrui tolleranza, grazie a relazioni di familiarità, di amicizia e di buon vicinato. Nulla vieta, peraltro, che tali atti, pure generalmente di scarsa importanza pratica, evolvano in possesso.
Anche le modificazioni e la perdita del possesso sono strettamente legate all'atteggiarsi degli elementi del corpus e dell'animus; pertanto è sicuramente possibile che si passi da un possesso a contenuto minore ad uno a contenuto maggiore e viceversa; per quanto concerne poi la durata del possesso, la legge pone alcune presunzioni, dettate dagli artt. 1142 e 1143 c. c., secondo i quali, in primo luogo, se chi possiede oggi ha posseduto una determinata cosa anche in un tempo remoto, si presume, salvo prova contraria, che egli l'abbia posseduta anche nel periodo intermedio; inoltre, si ammette che il possessore attuale abbia posseduto anche in precedenza, qualora possa fondare detto possesso su un titolo, sebbene non valido.
Un'attenzione particolare merita poi la norma contenuta nell'art. 1146 c. c., che disciplina le ipotesi di successione e accessione del possesso. Il primo fenomeno consiste nella parificazione del possesso alle altre situazioni giuridiche patrimoniali del defunto, per cui anche il possesso continua in capo all'erede, con effetti che decorrono dall'apertura della successione; il secondo comma dell'articolo citato prevede, invece, che il successore a titolo particolare, a causa di morte e per atto tra vivi, può unire il proprio possesso a quello del suo dante causa per goderne degli effetti. Tali meccanismi consentono di agevolare il proprietario che, non potendo più ricorrere alla tutela possessoria, debba promuovere un'azione ordinaria e, dunque, dimostrare i fatti costitutivi del suo diritto: egli, infatti, potrà così provare di possedere la cosa da un periodo di tempo che gli ha consentito di usucapirla.
Una disciplina particolare è dettata con riferimento al possessore di buona fede, ossia chi possiede ignorando di ledere l'altrui diritto. L'art. 1147 c. c., nell'individuare detta figura, accoglie una nozione di buona fede in senso soggettivo, da intendere come stato psicologico che si basa sulla commissione di un errore inerente la condizione giuridica del bene. La norma da ultimo citata, inoltre, sancisce una disciplina di favore per il possessore, fissando innanzitutto una presunzione di buona fede, cosicchè spetta non al possessore dimostrare di essere incorso nel suddetto errore, ma a chi contro di lui agisce provarne la malafede, e precisando altresì che la sussistenza della buona fede rileva esclusivamente al momento dell'acquisto del possesso, nel senso che "mala fides superveniens non nocet".
A cura dell'avvocato Mariano Caputo
16/11/2012
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