Note sull'economia molfettese tra Ottocento e Novecento 1^ parte - Tratto dal 25° Quaderno dell'Archivio Diocesano
Tratto dal 25° Quaderno dell'Archivio Diocesano di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, intitolato"CHIESA, SOCIETA', TERRITORIO. Studi in memoria di Lorenzo Palumbo", a cura di Arcangelo Ficco e Giuseppe Poli, La Nuova Mezzina Molfetta 2012.
Note sull'economia molfettese tra Ottocento e Novecento
Abbastanza conosciute sono, nelle linee generali, le vicende dell'economia molfettese tra Ottocento e Novecento, quando prende corpo la Manchester delle Puglie. Tuttavia, ad eccezione dell'ormai vecchio lavoro di Saverio La Sorsa e di quello più recente di Giuseppe Poli, non sono state pubblicate nuove indagini che consentano di arricchire il quadro complessivo degli aspetti salienti dell'economia molfettese tra i due secoli. Non sono mancate ricerche settoriali di particolare rilevanza, come quella di Biagio Salvemini sulla pesca, ma non sono stati sufficientemente esplorati i settori relativi all'agricoltura e all'industria, in modo tale da avere a disposizione ulteriori dati necessari a meglio comprendere le ragioni di uno sviluppo considerevole e quelle di una crisi successiva di non minori proporzioni. Tra le cause che possono aver favorito siffatto mancato approfondimento v’è da segnalare soprattutto la difficoltà di reperire informazioni seriali e una documentazione che dia ragione in modo esauriente tanto dei momenti di successo quanto di quelli di crisi. Le seguenti note intendono offrire un ulteriore contributo di indicazioni, relative principalmente all’ambito agricolo commerciale e manifatturiero, in modo da avere a disposizione altre tessere per la costruzione di un mosaico che non è ancora del tutto completo, perchè si possa tentare una sintesi delle vicende economiche di Molfetta tra Ottocento e Novecento, certamente rilevanti alla determinazione del suo futuro assetto economico e sociale.
A metà Ottocento
Nonostante la decadenza segnalata dal Giovene nel 1819, al punto da perdere «il nome di Città
ricca, che un tempo avea», Molfetta intorno alla metà dell’Ottocento continua a essere un centro commerciale di rilievo in Terra di Bari. Si tratta di un commercio intimamente legato
all’agricoltura, i cui prodotti, ad eccezione dell’olio e delle paste lavorate, non richiedono interventi complessi di manifattura. L’olio ne è, com’è noto, il punto di forza.
Da una nota del 1834 si ricavano i seguenti dati sull’esportazione:
Prodotti - Quantità
Acquavite - 280 botti
Agli - 50 cantara
Anisi - 480 cantara
Capperi - 30 cantara
Carrube - 690 cantara
Cipolle - 100 cantara
Fichi secchi - 264 cantara
Gomma - 90 cantara
Grano - 1029 cantara
Legumi - 198 cantara
Liquirizia - 10 cantara
Mandorle - 2.240,83 cantara
Manna - 110 cantara
Olio - 8700 salme [= 15.726 cantara]
Paste lavorate - 160 cantara
Semenze di finocchi - 49 cantara
Senape - 440 cantara
Tartaro di botti - 12,60 cantara
Nel decennio successivo il commercio molfettese dell’olio risulta essere in fase recessiva, rispetto agli anni ‘30, quando si aggira mediamente intorno a 12 mila salme all’anno (pari a circa 22 mila cantara), in quanto i dati disponibili per gli anni 1843-46-47-48-49-50 danno una media di circa 13.500 cantara. Nonostante la fase recessiva, il volume delle esportazioni di olio è comunque superiore del 60% a quello che si registra negli ultimi anni del Settecento, ma il prezzo dell’olio nel frattempo è ribassato e, per di più, si devono fare i conti con una concorrenza straniera che, per quanto attestata già nella seconda metà del Settecento, s’è fatta sempre più marcata e diffusa, ragion per cui il contesto all’interno del quale il commercio molfettese dell’olio deve muoversi non è più quello relativamente stabile del Settecento. Mauro Luigi Rotondo, un molfettese divenuto Capo Ripartimento del Ministero delle Finanze del Regno di Ferdinando II, nonchè attento osservatore delle dinamiche commerciali, agli inizi degli anni ’30, dopo aver ricordato che furono gli Inglesi, a causa delle guerre napoleoniche, a favorire lo sviluppo dell’olivicoltura in Spagna e in Africa, e dopo aver paventato i rischi di concorrenza del nuovo regno di Grecia, con elementare essenzialità dichiara: «Nella corrente indizione olearia si sono esportate dalla sola città di Malaga non meno di salme 65.500, da quel luogo cioè che nel principio di questo secolo riceveva da Napoli le sue provviste».
Per far fronte alle esportazioni, non risultando sufficiente la produzione locale, era necessario attingere al circondario con immissioni sul mercato cittadino. Su questo aspetto qualche indicazione si ricava da uno Specchietto relativo agli anni 1848-55:
Periodo - Quantità immesse sulla piazza di Molfetta - Quantità esportate
Novembre 1848/ ottobre 1849 - 10.536 - 9808,06
Novembre 1849/ ottobre 1850 - 632 - 8565
Novembre 1850/ ottobre 1851 - 9033 - 11.865
Novembre 1851/ ottobre 1852 - 14085 - 14172
Novembre 1852/ ottobre 1853 - 5258 - 7175
Novembre 1853/ ottobre 1854 - 29750 - 25668
Novembre 1854/ ottobre 1855 - 13510 - 19248
Totale - 82.804 - 96.501,06
Se prendiamo in considerazione le quantità complessive forniteci dalla stessa fonte nel periodo novembre 1848-dicembre 1855, il “ricolto” messo a disposizione per il commercio estero incide all’incirca per il 20%, pertanto oltre che un commercio di estrazione, quello molfettese dell’olio è anche un commercio di immissione. Tra l’altro interessa notare che la produzione media annua locale dichiarata nel 1846 di 12 mila cantara non si discosta molto da quella indicata nel 1904 dal prosindaco Mauro Balacco, il quale informa la Camera di Commercio di Bari che la produzione media annua di olive ammonta a 96 mila quintali, che di norma dà una resa di 12 mila quintali di olio, equivalenti a poco meno di 13.500 cantara, ragion per cui solo un consistente aumento delle immissioni e la capacità di battere la concorrenza avrebbe potuto consentire un’espansione di questo essenziale settore economico.
Lo Specchietto registra anche immissioni di grano, che tuttavia sono utilizzate, insieme alla produzione locale, per i bisogni degli abitanti, giacchè «Molfetta non estrae [grano] ma consuma».
Se ne importa dal Fortore, da Manfredonia, Pescara, Vasto, persino da Trieste, insieme a farina e riso. E’ interessante notare che la produzione di grano, negli anni considerati, è a volte superiore il doppio rispetto agli standard medi, come nel luglio 1854, segno che il seminatorio, in questo torno di tempo, è un settore non del tutto secondario dell’agricoltura molfettese, anche per ragioni sociali.
Se prendiamo in considerazione i dati relativi alle destinazioni colturali nel giro di un novantennio, per quanto non del tutto omogenei, possiamo meglio comprendere l’articolazione della struttura del commercio molfettese e le scelte legate alle modificazioni del mercato, che vedono nel corso del secolo XIX una diminuzione progressiva dell’uliveto, una limitazione consistente del seminatorio e una notevole espansione del vigneto, con inevitabile inversione all’inizio del nuovo secolo, dopo la crisi commerciale con la Francia, che fa registrare un discreto recupero dell’uliveto e del seminatorio, anche in virtù delle drammatiche vicende granarie di fine Ottocento, la drastica riduzione del vigneto e una discreta espansione delle colture orticole:
anno - uliveto - vigneto - seminatorio
1819 - 3766 (65%) - 1102 (19%) - 841 (14.5%)
1849 - 3433 (60%) - 1221 (21,36%) - 1015 (17.8%)
1873 - 3000 (53.95%) - 2500 (44.95%) - 57 (1%)
1909 - 4402 (77%) - 400 (7%) - 400 (7%)
Contrariamente ai pronostici del Giovene, che fa riferimento a nuove direzioni nel Tirreno del commercio molfettese, l’alto Adriatico continua a essere a metà Ottocento il terminale degli scambi degli olandesi della Puglia; allo stesso modo l’analisi poco confortante dell’abate molfettese sullo stato della industria locale, a suo parere ridotta ormai a poca cosa nel 1833, viene smentita, almeno in parte, da altre fonti, a partire dalla relazione De’ Saggi delle Manifatture Napoletane esposti nella solenne Mostra del 1834, in cui, a proposito della manifattura del lino, molto diffusa nelle province di Bari e Lecce, si ricorda che «la sola Molfetta vanta più di 600 telai di tela lina».
Il Giovene scrive, infatti, che l’industria delle reti e delle tele era consistente e dava «da fare a moltissime donne: La prima è perduta, la seconda è assai scemata. Vi era ancora grande industria delle Funi, la quale è ridotta a poco».
Nel 1849 un Lavoro statistico sulla prosperità comunale di Molfetta ci offre un quadro più ampio dell’economia cittadina, fornendo indicazioni relative ai diversi settori produttivi, a cominciare dall’agricoltura, la cui produzione agricola viene così definita:
Olio coacervato l’anno fertile coll’infertile - cantara 9000
Vino - botti 4000
Grano - tomola 4000
Orzo - tomola 3000
Avena - tomola 2000
Mandorle - tomola 2000
Fave - tomola 1000
Legumi diversi - tomola 1000
Carrube - tomola 6000
Rispetto ai dati precedenti, soprattutto si registra la presenza di non poco rilievo della produzione di vino, legata anche all’ampliamento delle superfici coltivate, esportato in questo periodo nella capitale nella misura di 2000 botti, circa 10.500 ettolitri.
La viticoltura diventerà sempre più, come si è avuto modo di notare, un elemento cospicuo dell’economia cittadina, sia pure con alterne e a volte contraddittorie vicende, e si avrà modo di darne qualche cenno più avanti, ma sin d’ora è opportuno segnalare, per dire il senso della portata strategica di questa coltura nell’economia molfettese e delle nuove opportunità che offre agli operatori locali a integrazione del tradizionale commercio dell’olio, che nel 1899, in occasione dell’Esposizione mondiale di Parigi dell’anno successivo, le autorità comunali, per sostenere gli operatori molfettesi e certificare la bontà del vino prodotto, dichiarano che il suo commercio «ha una importanza capitale per Molfetta, sia per l’importazione su vasta scala che si pratica dai paesi vicini, sia per i forti capitali molfettesi investiti nella coltivazione di questo prodotto in territorii dei paesi limitrofi».
A metà Ottocento, la qualità dell’olio esportato è migliorata, «giacchè coll’introduzione dei torchi alla Genovese tutti riescono fini», e ciò va ascritto a merito del sindaco Cappelluti che volle introdurre a Molfetta la produzione di oli fini «simili a quelli di Francia», con i quali per la prima volta nel 1836 sono giunti in Marsiglia «a gareggiarsi il primato».
L’esportazione all’estero di olio e mandorle, in particolare di olio, consente alle casse comunali di ricavare 4000 ducati all’anno, frutto del prelievo di grana venti a cantaia «sull’olio che si imbarca per l’Estero e sull’estrazione delle Mandorle», su un naviglio che fa registrare una stazza media complessiva di 3000 tonnellate. L’Istria e Trieste sono i terminali di questo «attivissimo» commercio realizzato con 70-80 viaggi all’anno dai legni molfettani, che al ritorno immettono «Ferrareccie, Coloniali, Tessuti e Legnami».
In effetto Trieste si può definire mercato unico dell’olio molfettese, come appare evidente dalla seguente tabella:
Esportazione dell’olio da Molfetta a Trieste e altre località nel periodo 1849-1855
(quantità in cantara)
Anni - Trieste - Trieste e altre località - Totale
1849 - 10.111,90 - 205 (Fiume - Ferrara) - 10.316,90
1850 - 7.848 - 185 (Venezia) - 8.033
1851 - 8.237 - 2.575 (Venezia) e 1.011 (Marsiglia) - 14.162
1852 - 11.884 - 1.241 (Venezia) - 13.125
1853 - 4.919 - 360 (Venezia) - 5.279
1854 - 23.562 - 4.432 (Livorno) - 27.994
1855 - 17.087 - 3.874 (Venezia) - 20.961
totale - 83.648,90 - 13.698 - 99.870,90
Una nota del 1860 ci dà un’idea dello stato degli operatori, dei legni e dei capitani impegnati nell’esportazione dell’olio da giugno a settembre, solitamente i mesi meno intensi, dalla quale appare evidente che a volte i capitani di legni sono anche operatori commerciali, e tra questi va segnalata la presenza di Sergio Fontana, che diventerà una figura di spicco del capitalismo molfettese della seconda metà dell’Ottocento, intrecciando le attività finanziarie a quelle imprenditoriali; la quantità complessiva esportata è di 1.924,82 cantara, dei quali i maggiori esiti sono di Vito Minutillo (601,46) e Stefano de Dato (273,5), un erede del quale all’inizio del Novecento si serve di carta intestata Huiles d’olive extra vèritables S. D. Maison fondèe en 1837, per rispondere a informazioni sulla produzione dell’olio a Molfetta richieste dalla Camera di Commercio di Bari.
Oltre che con Trieste, a metà Ottocento abbastanza attivi, una ventina all’anno, sono gli scambi con la Dalmazia, tradizionale fonte di approvvigionamento di “salumi”, la cui vendita si rinnova annualmente soprattutto in occasione della Fiera della Madonna dei Martiri, considerata un momento importante delle attività commerciali molfettesi proprio per la presenza di Dalmatini e Schiavoni con la loro «immensa quantità di salumi», scambiati solitamente con vari tipi di reti che si fabbricavano a Molfetta e che costituivano «un ramo di sussistenza a parecchie famiglie». Non solo animali, dunque, ma anche, oltre ai salumi, «stoffe, pannamenti, droghe, ferri, chiodi, attrezzi rurali» e soprattutto «canape», importata principalmente da Terra di Lavoro e da Ferrara per farne cordame, con un volume d’affari complessivo medio annuo che tra il 1848 e il 1851 si aggira su 16 mila ducati, una cifra ragguardevole se si tiene conto che negli stessi anni il bilancio medio del comune non supera i 22 mila ducati. Altrettanto interessante è notare che nel giro di alcuni anni l’industria dei cordami si è ripresa e costituisce un 20% del volume complessivo degli affari in Fiera.
Limitato invece, secondo il Lavoro statistico, il commercio «per Italia … facendosi tre o quattro viaggi all’anno, estraendo olio, ed immettendo Canape e Brulli»; non si pratica commercio con le Isole Ionie nè con le restanti parti del Regno. Anche nel quindicennio successivo, a differenza di quelli austriaci, segnalati già nella cronaca di Viaggio di Sua Maestà per le Puglie nel 1859, sporadica è la presenza dei legni greci, in quanto «non esiste commercio di sorta tra [Molfetta], e la Grecia. Solo diverse barche pescherecce si portano in quei mari ad eseguire la pesca e vi restano
colà per più mesi, vendendo ivi il pesce pescato».
I bastimenti impegnati in questa attività commerciale sono in numero di 25 e impiegano 754 marinai, molti dei quali lavorano anche nella pesca, e a questi bisogna aggiungere un imprecisato numero di «giovani inferiori agli anni sedeci». Se teniamo conto che nel 1837 risultano impiegati sulle barche da commercio 180 marinai, possiamo immaginare, in assenza di altri dati, un’apprezzabile espansione dell’attività commerciale avvenuta nel giro di 20 anni, grazie anche alla
ripresa dei prezzi dell’olio.
Oltre che nell’agricoltura e nel commercio, molti molfettesi sono impegnati nella pesca, altro settore considerevole della sua economia, cronicamente angustiato dal depauperamento del patrimonio ittico delle coste pugliesi e dai relativi divieti di pesca a strascico, con conseguente necessità, come s’è già visto, di emigrare in mari più ricchi. Inutilmente contro i provvedimenti di divieto, le cui conseguenze sociali possono facilmente immaginarsi, cercò di misurarsi il Giovene.
I dati a disposizione danno l’idea di un settore che si espande nel corso dell’Ottocento: nel 1837 risultano in attività 35 coppie di bilancelle e nella più importante assise cittadina si afferma che «l’industria del pesce forma il sostegno di un terzo della popolazione per la ristrettezza di questo tenimento». Nel 1899 nelle relazione di presentazione per l’Esposizione mondiale di Parigi, alla quale si è già fatto riferimento, si sottolinea l’importanza dell’attività della pesca, pur in un contesto economico caratterizzato da una consistente presenza di industrie, giacchè con le sue 200 paranze «offre un incremento di benessere alla città»: «oltre del pesce che serve al consumo locale, Molfetta fornisce di tal genere non solo quasi tutta la Provincia di Bari, ma anche fa delle spedizioni in altre Provincie lontane. I nostri intrepidi e coraggiosi marinai con queste piccole barche paranze si spingono fin nei lontani mari del levante, come in Grecia e in Egitto, dove per anteriori contratti vi rimangono ad esercitare la pesca per lungo periodo di tempo».
Così come a metà Ottocento, pesca e attività commerciale si integrano ancora all’inizio del nuovo secolo, giacchè i pescatori eseguono «ad intervallo di tempo lunghi viaggi all’estero», quando non emigrano «per recarsi negli stati dove maggiore è la retribuzione della manodopera, e ciò allo scopo di riunire un gruzzolo per mettere su famiglia o per dare a questa una certa agiatezza». E v’è chi dalla pesca, nonostante la giovanissima età, ricava «sostegno della propria famiglia», come il bambino Donato Annese, «perchè il padre emigrato da oltre 2 anni non ha pensato a rimettere denaro alla stessa famiglia». Di qui la vivissima preoccupazione che la mutata situazione geopolitica del primo dopoguerra possa ulteriormente sacrificare l’economia molfettese di questo importantissimo cespite, in quanto «la questione della pesca sulle coste del litorale dalmato cadute sotto la dominazione del Regno Iugoslavo interessa vivamente la nostra città, che ha una numerosa classe di pescatori, che ha bisogno di emigrare per vivere». Preoccupate, le autorità cittadine sollecitano la diplomazia nazionale che nel corso dei negoziati Italia-Iugoslavia «non vengano ulteriormente trascurati gl’interessi vitali della Città».
Per quanto, v’è da aggiungere, i problemi della pesca molfettese nel primo Novecento sono anche quelli di ritardo nell’ammodernamento dei mezzi e di mancanza di validi investimenti. Nel 1919 la Lega di resistenza fra marinai da pesca sollecita le istituzioni locali e nazionali per ottenere una coppia di motoscafi («o barche a vapore»), «perchè nel caso di mancato vento, possano essere adibiti al trasporto del prodotto della pesca dalle bilancelle alla banchina, con risparmio di lavoro della classe marinara non più obbligata a ritornare in porto a forza di remi … anche evitando il deperimento e talvolta la totale perdita delle pescate, specie nella stagione calda»; nel 1926 l’Alleanza mutua cooperativa tra armatori proprietari e marinai di bilancelle da pesca si rivolge al sindaco e all’on. Sergio Panunzio perchè, nonostante «la diligenza e la eccezionale attività dei nostri armatori per rendere proficuo il lavoro di pesca, si hanno risultati magrissimi da circa 3 anni [tanto che gli armatori] si trovano in stato di fallimento, nessuno escluso», pertanto risulta assolutamente inaccettabile che motopescherecci tarantini e cotronesi vengano a pescare nell’Adriatico, e se ne chiede l’assoluto divieto. In questo contesto, paradossalmente, risulta inesistente l’attenzione istituzionale per la cantieristica. Che il commercio sia diventato sempre più, con il passare del tempo, un elemento particolarmente delicato dell’economia molfettese, proprio per la sua valenza di insostituibile settore strategico, è testimoniato non solo dalle cure secolari prestate dall’amministrazione cittadina alla manutenzione e all’ampliamento del porto, «un’opera che assicura –si afferma nel 1838- la sussistenza a questa numerosa Popolazione, che non sa se non dal Commercio Marittimo ricavarla», ma anche dall’attenzione posta alla salvaguardia del ceto dei marinai, a vantaggio dei quali, per sovvenire alle indesiderate conseguenze della loro difficile attività, alcuni esponenti della classe dirigente nel 1837 propongono, senza successo, l'istituzione di una sorta di cassa previdenziale e assicurativa.
Per quanto modesto, nel Lavoro statistico il settore delle "industrie", legato principalmente alle attività marinare, risulta tale da smentire le previsioni poco incoraggianti del Giovene: primeggia la produzione di funi, «specialmente per le Barche», manifattura che «è giunta alla perfezione, essendochè si lavorano le Gomene ad oncie cinque di diametro, e del peso di circa cantara dodici», con proventi annuali di circa 6000 ducati; segue la manifattura tessile, con la produzione di tele di lino, canapa e cotone, per 3000 ducati annui.
La relativa prosperità dovuta alle risorse descritte consente alla città di realizzare diverse opere pubbliche, tra le quali vanno ricordate, oltre alla sistemazione del braccio di ponente del «nuovo Porto», la costruzione del camposanto e, soprattutto, «l'opera della Casa Comunale, e Teatro annesso», per il quale, in una seduta dei decurioni del 1840, si chiese grazia al re di poterlo intitolare «Real Teatro Maria Teresa», in omaggio appunto alla regnante regina Maria Teresa.
La nota più interessante di questo periodo, relativa però all'agricoltura di Molfetta, riguarda il tentativo di diversificazione delle colture, con l'estensione della superficie destinata alla coltivazione del cotone, la cui produzione nel 1850 risulta di 10 cantara. Ne1 1863, constatatane la scarsa diffusione, pari alla 354Ş parte del territorio, si ipotizza «di addire a tale coltura i terreni messi lungo la spiaggia del mare dentro il raggio di metri 400, i quali formano ettari 172 compresi quelli messi a coltivo». Tale superficie potrebbe essere tutta irrigata, ma solo 72 ettari sono irrigabili con poca spesa, per gli altri occorrerebbe invece una spesa «piuttosto ingente». L'esperimento, forse per questo, non conosce il successo sperato, come testimoniano i dati relativi tanto alla superficie impegnata quanto alla produzione per il periodo 1863-73: dopo il livello massimo di 60 ettari coltivati e di 120 quintali prodotti nel 1865, a partire da1 1870 la superficie destinata si attesta su 14 ettari e la produzione intorno ai 20 quintali, certamente superiore a quella segnalata nel 1901, di soli 10 quintali; altresì la documentazione disponibile lascia pensare a un progressivo abbandono di questa coltura, che avrebbe dovuto alimentare la manifattura locale, per sopperire alle difficoltà di approvvigionamento dall’estero.
Un'altra rilevazione, risalente al 1850, ci offre una mappa altrettanto dettagliata della condizione socio-economica della città, complementare a quella precedente, nella quale l’articolazione dei dati fa riferimento, oltre che al modestissimo patrimonio zootecnico, soprattutto agli aspetti manifatturieri.
Le indicazioni concernenti le manifatture da un lato confermano la presenza di una diffusa produzione tessile (1000 cantara di tele di cotone e 3000 di lino per anno) e dei cordami (venti aziende con 15000 cantara all'anno), dall'altro segnalano una diversificazione produttiva di qualche rilievo nel settore del ferro, con dieci aziende che producono 15000 cantara di manufatti in parte esportati nei paesi limitrofi, dove giunge anche il sapone preparato in soli due opifici (2000 cantara), e in quello dell'alcool, con una media di 3000 barili annui, che sono collocati anche sul mercato di Trieste. Modesta risulta la produzione delle paste, allestita in cinque centri, con 2000 cantara prodotte «pel consumo della popolazione», a cui bisogna aggiungere 50 forni e mulini, necessari alla panificazione; modesta anche quella delle pelli e della cera, del tutto assente quella del «cremone» e della creta. Nell'insieme queste manifatture impiegano «cinque in seicento addetti».
Non meno interessanti sono le notizie sulla struttura della popolazione e sulla sua articolazione sociale, pienamente rispondente ai canoni demografici d'età moderna: su 18.384 abitanti, più della metà (10.053) è compresa in età da 1 a 20 anni, e meno di un terzo da 51 in su; la maggioranza è costituita da agricoltori», 3130, seguono i pescatori, 1148, gli operai, 981, a distanza i commercianti, 30; poi i 16 maestri di lettere, i 12 legali, gli 11 medici e impiegati civili, i 10 notai, gli 8 militari e i 4 «ostetrici»; essuno è addetto alla pastorizia; risulta in flessione la flotta da trasporto (16 barche, da 60 a 100 tonnellate), in crescita rispetto al 1837, ma ancora modesta, quella da pesca (54 barche).
Sembra essere in atto, comunque, nella struttura sociale della popolazione un cambiamento, che si rafforzerà nel cinquantennio successivo, concernente le percentuale di addetti nei due settori tradizionali dell’economia cittadina. Sebbene la diversità dei criteri utilizzati nella rilevazione non consenta di sperare comparazioni tra i dati a disposizione, può essere tuttavia utile, con tutte le riserve possibili, mettere a confronto quelli relativi agli addetti all’agricoltura e alle attività marittime, in rapporto alla popolazione, nell’arco di tempo che va dalla metà del Settecento al 1897, anno al quale risale il famoso scritto salveminiano su Molfetta. Rispetto ai dati forniti dal Catasto conciario di metà Settecento si registra a metà Ottocento una sostanziale stabilità del valore percentuale di coloro che erano impegnati nel lavoro dei campi, con un dimezzamento a fine secolo, mentre per gli addetti alle attività del mare si registra un progressivo incremento percentuale, che conosce a fine Ottocento un raddoppiamento. In questo contesto sostanzialmente stabile si presenta il valore percentuale degli operai:
Anni - Popolazione - Addetti all’agricoltura - Addetti alle attività marittime - Operai
1754 - 8847 - 1450 (16.38%) - 369 (4,16%) - 459 (5.18%)
1850 - 18384 - 3130 (17.02%) - 1148 (6.24%) - 981 (5.33%)
1897 - 37000 - 3000 (8.10%) - 3000 (8.10%) - 2500 (6.75%)
Limitate si presentano le risorse culturali: se si fa eccezione per il Seminario, del resto sotto utilizzato (100 convittori su una capacità di 110), e per i due conventi di frati, cappuccini e minori osservanti, con i loro 33 convittori, si registra la presenza di sole tre scuole pubbliche per una popolazione in età scolare molto numerosa. Nè v'è da meravigliarsi più di tanto, giacchè si sa da una nota di qualche anno dopo che «Molfetta conta a un dipresso 3500 fanciulli da 9 a 12 anni bisognosi tutti d'istruzione, ma per mancanza di luogo, con tutta la buona volontà, il Comune non la può impartire che a un 150 in due sottani umidi e disadatti». Una situazione per certi versi non dissimile da quella di circa cento anni prima.
18/11/2012
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