Corrado Giaquinto
Corrado Domenico Nicolò Antonio Giaquinto (Molfetta, 8 febbraio 1703 – Napoli, 1766) è stato un pittore italiano.
VITA
Corrado Domenico Nicolò Antonio Giaquinto nasce a Molfetta 18 febbraio 1703, in via Sant'Orsola, da Francesco, sarto nativo di Manfredonia, ma originario di Montuoro e da Angela Fontana di origine barese.
Avviato da giovinetto allo studio delle Lettere dai genitori, che volevano diventasse sacerdo¬te, ben presto, però, scopre la sua vera inclinazione artistica. Determinante è l'incontro con il lombardo Ludovico Vittorio Iacchini, famoso architetto ed esperto di scienze matematiche, maestro dell'Ordine di San Domenico, che si trovava a Molfetta, mentre si concludevano i lavori della Chiesa di S. Domenico. Il domenicano intuisce il talento artistico del giovane e lo convince a dedicarsi alla pittura.
Corrado frequenta la bottega di Saverio Porta, pittore locale, amico di famiglia che il 27 mag¬gio 1714 era stato suo padrino di Cresima. Questo periodo di formazione inciderà profondamen¬te sulla sua sensibilità pittorica.
Nel 1719 Giaquinto si reca a Napoli al seguito di Monsignor De Luca, suo mecenate, che lo introduce nella bottega di Nicolò Maria Rossi; qui vi rimane un anno per passare poi presso la scuola del Solimena, che grande fascino esercitava all'epoca sui giovani artisti napoletani. Corrado rimane nella capitale per circa quattro anni, durante i quali si fa conoscere e apprez¬zare negli ambienti culturali napoletani e dallo stesso Solimena I suoi biografi affermano che tra gli artisti non fu mai oggetto di invidia e tutti ne rico¬nobbero sempre il grande talento.
Una delle prime opere del giovane è la piccola tela raffigurante S. Giovannino, di pro¬prietà del canonico llarione Giovene di Molfetta. Nel 1723 a vent'anni, con una lettera com¬mendatizia del vescovo di Molfetta Mons. Pompeo Salerni al cardinale suo fratello, si trasferisce a Roma, dove trova il suo primo protettore in Monsignor Ratta, auditore della Camera Apostolica.
Questo viaggio, secondo il De Dominici, si rende necessario perchè Corrado sente il bisogno di apprendere perfettamente il disegno nel quale egli stesso si sente incer¬to. Ed è proprio l'impegno profuso nel per¬fezionare le sue potenzialità grafiche che gli provoca una breve malattia dalla quale rie¬sce a guarire. Entra in seguito nella bottega di Sebastiano Conca già famoso a Roma e ben inserito negli ambienti artistici romani.
Nel 1725 il cardinale Acquaviva gli affida l'incarico di affrescare il medaglione centra¬le del soffitto della Chiesa di S. Cecilia in Trastevere, che raffigura l'Apoteosi della Santa.
Nella Roma barocca, pur saltuariamente, si fermerà sino al 1753, anno della sua partenza per Madrid.
Il 21 gennaio 1731 stipula, per 500 scudi, un contratto di lavoro con deputati della Congregazione di San Nicola dei Lorenesi e si impegna a dipingere la tribuna, la cupola, gli angoli, i cori e tutta la volta della chiesa con ornati.
Successivamente nel 1753, anno della morte della sua giovane moglie, affresca la volta della Cappella Ruffo nella Basilica di S. Lorenzo in Damaso, la volta e il coro di S. Giovanni Calibita sull'isola Tiberina ed affronta il grande programma decorativo di S. Croce in Gerusalemme: tre tappe decisive nell'evoluzione del linguaggio e della struttura scenografica giaquintesca.
Su invito di Filippo Iuvarra, Corrado si reca a Torino nel giugno del 1733 e lavora agli affreschi di Villa della Regina ma, dopo pochi mesi, per motivi di salute abbandona la città.
Vi ritorna nel 1740, dà libero sfogo al suo Rococò ricco di grande lirismo e canta la genuina e semplice vita arcadica.
Il 3 gennaio 1740, l'Accademia Romana di S. Luca lo elegge, per merito, membro del presti¬gioso sodalizio, che garantirà all'artista nuove committenze.
Le dodici tele mitologiche custodite in casa De Luca a Molfetta sono da inserirsi immediata¬mente dopo il secondo soggiorno torinese e furono eseguite nella stessa città.
Un'intensa attività lo porta ad operare nel Duomo di Fermo, nel Palazzo Bonaccorsi e Ricci a Macerata e a Cesena, dove, spinto dal can. Francesco Chiaramonti eminente giurista, dipinge nel Duomo la cupola della cappella della Madonna del Popolo.
Nel 1753 si trasferisce a Madrid, chiamato da Ferdinando VI per succedere a Iacopo Amigoni, in qualità di pittore di corte e di Rettore dell'Accademia di S. Ferdinando.
Sino al 1762 lavora alle chiese madrilene, al Palazzo Reale, all'Escorial e ad Aranjuez, lascian¬do opere alle quali si ispireranno molti pittori polacchi, francesi e spagnoli. Trascorre gli ultimi anni di vita a Napoli, dove muore il I 766 per apoplessia.
Della sua sepoltura si è persa ogni traccia.
Manoscritto del Notar Muti sulla famiglia Giaquinto
Il primo di questa famiglia che è venuto in questa città circa l'anno 1690 è stato mastro Francesco Giaquinto sartore nativo di Manfredonia ma originario di Montorio; per la sua professione si pose per lavoranza con Giuseppe Fontana parimenti mastro sartore. Francesco si accasò colla figlia di mastro Giuseppe chiamata Angela; in conseguenza dal quale matrimonio nacquero due femmine, una maritata in Modugno, l'altra in questa città con Michele Vitagliano parimenti mastro sartore e tre maschi, don Giuseppe, e don Saverio ambi sacer¬doti: e l'altro Corrado il quale prese li primi principij della Pittura sotto Saverio Porto mastro pittore, e poi con lettera commendatizia diretta dal nostro Vescovo al Cardinal Salerni suo fratello, si portò in Roma, dove colla sua arte in cui è riuscito eccellentissimo, si ha fatto strada con molti Signori Cardinali, e Prinicipi romani, e stranieri a segno tale che vacuo in questo anno il canonicato del can. D. Ambrogio Viesti e spedito da qui corriero in Roma a D. Peppe Ventura da suoi fratelli; annotava la nuova il Cardinal...
Protonotario, lo provvide in persona di D. Saverio Giaquinto, senz'aspet¬tare li requisiti dal medesimo; e .. . il detto don Ventura benchè presente in Curia causa studi; poichè il nomi¬nato Cardinale tiene in tanta stima Corrado Giaquinto che lo ammette alla sua mensa.
TESTO CRITICO
Premessa
Ci sono momenti che, prima e più ancora di appartenere all'Arte ed alla Cultura, appartengono ad una sorta di sentimento profondo, intimistico, che cresce e che nel suo lento, ma costante divenire, illumina, con estrema chiarezza, momenti rari e preziosi, carichi di valenze simboliche, luoghi mentali, sentieri no del tutto esplorati. Forse anche di utopie, la cui profondità, di volta in volta, è determinata esclusivamente dalla conoscenza: da quella elezione che, per precordi e per differenti approcci non può appartenere a coloro i quali, spesso confondono il sacro con il profano, rimanendone travolti insieme ai propri egotismi ed alle più insulse acredini senza che esistano apparenti ragioni perchè tutto ciò accada.
Più volte, durante questi ultimi dodici anni, mi sono trovato a dovermi arrestare d'improvviso, al tramonto, qualche altra volta anche all'alba, al richiamo perentorio di Gaetano Mongelli, che con voce ferma e suadente, passeggiando sulla banchina di San Domenico mi incalzava: "Ecco... fermati! Vedi, questi sono i colori di Corrado, osserva le sfumature i rossi che si mescolano agli azzurri senza confondersi tra loro, solo sul porto di Molfetta sono così, e Lui, ne sono certo! Questi colori li ha trasposti nelle sue tele, ma ancor di più nella sua anima, portandoli con se ovunque sino alla fine..." e lì si rimaneva in attesa che le ombre si sostituissero alle luci, facendoci godere - attimo dopo attimo quel "senso del bello" che "si rinnova e si rinfresca di generazione in generazione". Questa prima pubblicazione del sodalizio che presiedo, restituisce, grazie all'illuminata opera instancabile del Mongelli, con impareggiabile chiarezza e con dovizia documentaria, "i contorni di una storia che viene da lontano" quella di Corrado e del suo tempo, una storia raccolta con amorevole cura dal tronco di proposizioni quanto mai vive vivaci e vitali.
E' la storia stessa di una città memore ed attenta, raccontata attraverso il recupero meticoloso, e non sempre facile, di frammenti della memoria, che a sprazzi, passi a volte dimenticati nelle pieghe più recondite del tempo ribadendo così il nostro doveroso omaggio ad un uomo, un protagonista di casa nostra che ha portato la sua pittura, intrisa di genuina molfettesità, nelle più potenti corti d'Europa.
Acc. Prof. Domenico Facchini
Presidente della Società di Cultura Europea
"G.M. A. Caracciolo" Molfetta
Gaetano Mongelli
Dal dipinto al francobollo e viceversa. Note sull'Assunta e Santi di Corrado Giaquinto nella Nuova Cattedrale di Molfetta (1747)
a Mariagiovanna
L'emissione di un francobollo commemorativo nel terzo centenario dalla nascita di Corrado Giaquinto (Molfetta 1703 - Napoli 1766), non solo ribadisce la definitiva consacrazione del pittore, ma ne amplifica l'autorevolezza in termini categorici e perentori. In linea, oltretutto, con altri due francobolli stranieri che celebrano la sua arte, passando dal sacro al profano, attraverso pitture di indubbio prestigio.
Già nel 1962 le Poste Spagnole emisero una serie di francobolli centrata sui Misteri del Santo Rosario, illustrati - tra gli altri - da maestri della statura di Bartolomè Esteban Murillo (Siviglia 1618- 1682), di Pedro de Campana, nome ispanizzato di Pieter de Kempeneer (Bruxelles 1503 - 1580), Alonso Cano (Granada 1601 - 1667), El Greco (Candia 1541 - Toledo 1614).
Della stessa serie facevano parte soltanto due maestri italiani, entrambi - chi per un verso, chi per un altro - indiscussi protagonisti della cultura figurativa del Settecento: Giambattista Tiepolo che, al servizio di Carlo III, trascorse gli ultimi anni di vita a Madrid, dove morì nel 1770, e Corrado Giaquinto che (nominato «pittore di camera», direttore dell'Accademia di S. Fernando e sovrintendente ai lavori dell'Arazzeria Reale) nella Capitale spagnola fece il suo ingresso trionfale il 21 giugno 1753, operandovi per circa dieci anni fino al suo rientro a Napoli (1762).
Il pezzo riguardante Corrado rappresenta l'Orazione di Gesù nell'Orto su un fondo «bruno viola» che, nonostante la riduzione grafica, non depaupera la resa dall'originale conservato al Prado tra quelle pitture, relative alla Passio Christi, che per primo il d'Orsi indagò con impareggiabile acume:
pitture condotte con tecnica rapida e compendiosa, come nei bozzetti, in cui le tipiche costruzioni oblique vengono sottolineate da fortissimi fasci di luce irreale, che scandiscono vigorosamente le figure dei protagonisti, sui mezzi toni delle figure secondarie, sulle ombre dei fondali. Ma, nonostante che le riproduzioni fotografiche possano dar l'impressione che si tratti di pitture molto contrastate, il colore vi è sempre chiaro, quasi sbiadito, come se il maestro avesse voluto esprimere il pathos della divina tragedia, oltre che con l'intensità della luce, anche con la rinunzia alla gaiezza del suo intenso cromatismo.
(Fig.1) Il francobollo spagnolo del valore
di 2 pesetas è ripreso da una tela
del Giaquinto oggi al Museo del Prado.
L'altro francobollo destinato al Giaquinto è ripreso da un «tableau» dello Szèpmuvèszeti Mùzeum (inv. 58. 50), raffigurante l'Allegoria della Pittura: una tela dalla sostanza serica e perlacea, che il grande pubblico ha potuto visionare in primis nella mostra Giaquinto: Capolavori dalle Corti in Europa, allestita presso il Castello Svevo di Bari nell'aprile 1993.
All'interno di una serie postale, per lo più ispirata a temi mitologici e a soggetti veterotestamentari, l'opera di Corrado fa bella mostra di sè accanto ad autori di grande forza e prestigio: dal francese Pierre Mignard
(Tròyes 1612 - Pàrigi 1695) a Francesco Fùrini(Fiìenze 1604 - 1649), Sebastiano Ricci (Belluno 1659 - Venezia 1734), a Luca Giordano (Napoli 1634- 1705) e così via.
Fra le altre cose, il dipinto giaquintesco (che Istvan Barkòczi dice «acquistato a un asta pubblica tenutasi a Budapest neI 1958») ha meritato la copertina del catalogo della mostra:Metamorfòsi del mito. Pittura barocca tra Napoli Genova e Venezia, curata da Mario Alberto Pavone, aperta fio al prossimo autunno (Genova, Palazzo Ducale: 22 marzo -- luglio 2003; Salerno, Pinacoteca Provinciale: 19 luglio - 19 ottobre 2003)
Per la verità anche dalle nostre parti, sull'esempio trainante della Spagna e dell'Ungheria, non mancarono iniziative per cosi dire meritorie, quantunque non circoscritte all'ambito della sola filatelia. Benchè, traendo le mosse da affondi scopertamente campanilistici, fosse proprio il "Circolo Filatelico Molfettese" nel 15° anniversario dalla sua fondazione a farsi carico di «nuove trovate per non affogare nella monotonia» l'impegno più perspicuo del sodalizio (che, comunque, restava «l'annuale sagra filatelica»), incrementando - lungo nuovi percorsi -recuperi di memoria, al solito degni di credito.
Come avvenne nel 1973 per il centenario della nascita di Gaetano Salvemini, primo tra i grandi figli di Molfetta a comparire su un francobollo della Repubblica, allorchè si diede mandato allo "Stabilimento Stefano Johnson di Milano" di coniare una medaglia allo scopo di «lumeggiarne la figura di storico e scrittore politico insigne». Una commessa che precedette di soli due anni la tiratura limitatissima in argento e bronzo di «una seconda medaglia dedicata a Corrado Giaquinto», realizzata al pari della precedente dallo scultore Luigi Teruggi .
Modellata con rara maestria, la medaglia riporta sul recto il ritratto di Giaquinto mentre, imparruccato secondo la moda del tempo, dipinge al cavalletto: ritratto desunto di sana pianta da una tela databile all'ultimo quarto deI XVIII secolo, proveniente dalla Galleria degli Uomini Illustri del Comune di Molfetta (oggi nella Fabbrica di San Domenico) e attribuito al miglior allievo conterraneo di Corrado (Fig. 4).
Quel Nicola Porta (Molfetta 1710-1784), che era maturato nell'Urbe al seguito del maestro non oltre il 1753: data, dicevano poc'anzi, che segna, dopo l'arrivo a Roma di Anton Raphael Mengs (Aussig, Boemia 1728 -Roma 1779), il congedo del Giaquinto dall'Accademia di S. Luca, in vista del suo viaggio alla volta della corte madrilena che lo aveva formalmente invitato a ricoprire il posto lasciato vacante alla morte di Jacopo Amigoni (Venezia 1682 - Madrid 1752), dopo essere stato per qualche tempo in ballottaggio con Francesco de Mura (Napoli 1696 - 1784). Alla fine, però, stando a quanto riferisce sulla vicenda don Clemente de Arostegui,viceprotettore della neonata Accademia di S. Fernando nonchè ambasciatore spagnolo a Napoli e principale responsabile delle trattative Giaquinto ebbe la meglio, perchè supremo rappresentante della cosiddetta «Escuela Mista», cioè di quella tendenza capace di conciliare gli aspetti positivi dell'arte romana e partenopea.
Un'«Escuela» che, accanto alla pala di Rocca di Papa (1739) e all'Immacolata Concezione della Basilica dei SS. Apostoli a Roma (1749-50), trova il suo culmine ideale e formale nella grande tela con l'Assunta e Santi della Nuova Cattedrale di Molfetta (Fig.5).
Opera che compare sul verso della medaglia deI Teruggi, il quale, utilizzando la gloriosa tecnica dello stiacciato, insisterà sulle peculiarità linguistiche dell'originale giaquintesco: dall'eleganza del modellato al dinamismo dell'impianto, dal trattamento porcellanato e smagliante del colore alI'avvolgente spazialità dell'insieme. Soprattutto nel coronamento, caratterizzato dal volo obliquo della Vergine, in grado di controbilanciare la statuaria positura dei santi e dell'angelo che occupano per intero il proscenio: argomento che affronteremo tra breve.
Tuttavia, fatta eccezione per la medaglia coniata nel 1975, Corrado pur ritenuto «pittore di prima grandezza» sarà «ignorato ostinatamente dalle nostre Poste». Non da coloro che, in attesa di tempi migliori, nel dicembre del 1995 - a fronte di decennali «e reiterate richieste avanzate dalle autorità comunali» per l'emissione di un francobollo commemorativo - dedicarono al nostro pittore la "XXXVIII Mostra Filatelica Molfettese", attingendo materiale illustrativo dalla serie mitologica delle dodici tele in collezione del marchese Giulio de Luca.
Pertanto, furono proposte due cartoline ufficiali con la riproduzione di due meravigliose opere del Giaquinto, sconosciute al grosso pubblico, gentilmente messe a disposizione da un privato collezionista. Una rappresenta «Venere che riceve da Vulcano le armi di Enea», l'altra «Il trionfo di Galatea», di cui un particolare costituì l'annullo speciale figurato (Fig. 6).
Nel frattempo altre iniziative si sono rivelate degne di plauso. Perchè animate da un entusiasmo difficile, forse impossibile, da sbollire:
un entusiasmo che si rinnova e si rinfresca di generazione in generazione restituendo i contorni di una storia che viene da lontano, con le luci, le ombre e le trasparenze della nostra terra, grazie all'Abecedario e alle beatitudini pittoriche di un protagonista del XVIII secolo, corteggiato dai più potenti prelati e regnanti d'Europa.
Le «beatitudini pittoriche» indicate dall'Assunzione della Vergine, scelta con criterio per il francobollo del centenario. Beatitudini che indussero mons. Fabrizio Antonio Saleri, vescovo per quarant'anni della nostra città
(1714-1754) a commissionare quest'olio su tela di considerevoli misure (410 x 296 cm), destinandolo al nuovo altar maggiore in marmo della chiesa di San Corrado, consacrato il 16 luglio 1747.
L'intervento comportò il conseguenziale smantellamento dal sito di una più antica tavola a fondo oro, raffigurante la Dormitio Virginis. Una pittura «diversamente immischiata in questioni attributive», passando ora come opera di un pittore attivo nei primi del Cinquecento, seguace di Cristoforo Scacco, «il Veronese, che diffuse nella Campania l'arte mantegnesca e crivellesca»; ora di un autore «non immune da residui bizantineggianti», aggiornatosi però su esperienze maturate in Italia centrale ora di un anonimo maestro vicino nella maniera allaDormitio di San Gennariello al Vomero a Napoli (1508), ma con una datazione di poco più tarda; ora saldando le ragioni storiche del dipinto - da leggersi con ogni probabilità alla luce di interventi di bottega comunque «memori delle [...] elaborazioni da Polidoro da Caravaggio» - alle traversie del Sacco che Molfetta subì nel 1529.
Un'opera, dunque, dalla controversa paternità, ma sufficientemente assegnabile a Marco Cardisco (1486c. - 1542c.), considerandone le matrici umbro-laziali che in linea di massima ben si accordano, «nel fondamento, sia al Perugino che a Raffaello» .
Nel 1785 la Dormitio Virginis, fu trasferita nell'attuale Cattedrale dove - a lungo depositata in sacrestia - fu riattata «nella cappella di S. Anna [...], quale sopraporta della parete sinistra» di fronte al tumulo di mons. Francesco Antonio de Luca, vescovo di Tursi e Anglona, arcivescovo di Nazareth, morto nel 1676 «alla cui virtù e memoria il fratello Didaco e il nipote Marcello» dedicarono sia la macchina tombale, sia l'altare - sovrastato al centro del dossale - da un dipinto di Carlo Rosa da Bitonto, raffigurante la Sacra Famiglia con S. Anna e S Gioacchino. Un tema che il maestro trattò sovente, fino a replicarlo in maniera meccanica e palmare, tanto da renderlo in alcuni casi un «mero esercizio scolastico»: lo appuriamo dal confronto diretto tra la tela molfettese e le due Sacre Famiglie della Cappella Rogadeo di Bitonto e della Biblioteca Comunale di Palo del Colle.
Tuttavia va precisato che la tavola della Dormitio Virginis c'è giunta, purtroppo, priva della parte sommitale su cui correva un'iscrizione che mons. Pompeo Sarnelli, vescovo di Bisceglie, trascrisse nella Visita del 1699, come poi fece mons. Giovanni degli Effetti nel 1704. Perchè l'esame paleografico del testo avrebbe potuto aggiungere qualcosa di più sulla cronologia del dipinto. Ciò nonostante, con meticolosità viepiù notarile il promemoria del Sarnelli non si ferma alla descrizione della icona mariana («totam ex tabulis constructam deauratam positam a parte posteriori [...] tabernaculi eucharistici»), giacchè restituisce il quadro complessivo della zona del presbiterio, indugiando sull'antico altare ligneo e sul relativo corredo scultoreo irrimediabilmente votati alla rovina con l'arrivo a Molfetta dell'Assunta e Santi del Giaquinto.
A questo corredo, «supponendo di far cosa che possa riuscir gradita ai [...] lettori», fa riferimento Antonio Salvemini in una pagina di storia patria del 1878, seguito - non proprio a ruota da Pietro Amato (2002): un altro studioso del luogo, sulla cui credibilità scientifica intendiamo soffermarci in altra sede prima che, sul centenario giaquintesco cali il sipario. Intanto, solo qualche anticipazione: i riscontri «davvero sorprendenti» a cui allude l'Amato dopo aver appreso dal Salvemini quel che serviva per una più consona «conoscenza dell'altare demolito» nel Duomo Vecchio, per prassi non vanno oltre la semplice ricognizione bibliografica che è alla base di ogni ricerca storica. Ancora una volta però, la documentazione ostentata a garanzia dei suoi risultati è marginale, compilativa e quel che è peggio già pubblicata da altri in modo esimio.
Si rileggano, ad esempio, i punti topici della Visita pastorale di mons. Sarnelli e nello specifico la trascrizione riguardante l'assetto dell'«Altare Maius [...] positum in capite illius ad Orientem», consacrato «sub titulo Beate Marie Virginis in Caelum assumpte»: uno dei tantissimi resoconti di prima mano indagati e collazionati da Mariagiovanna di Capua tra le fonti e i documenti dati alle stampe quindici anni fa in un volume sulla Nuova Cattedrale di Molfetta (1988). Stralcio di seguito i passi in grado di restituire maggiore visibilità alla nostra questione, partendo dai simulacri posti sulla destra della Dormitio Virginis:
Eodem latere dextero Simulacri dicte Beate Marie Virginis [...] dicte Ecclesie habentur statua lignea colorata Principis Apostolorum [...] habentis claves ecclesie in eius manibus, in cuius peide adsunt sculpita insigna Illustrissimi Domini Maiorani olim Melphictensis episcopi [...] et a latere sinistro alia statua Divini Pauli Apostoli epsem manu dextera habentis, ac in pede insignia Magnifice Universitatis huius Civitatis relevantia fasciam in medio palme ex transverso [...], unde ascenditur ad Ciborium alias descripta in cornu evangelii adest statua lignea integra similiter deaurata Sancti Corradi Civitatis Patroni eremitica forma insculpti cum palio siciliceo eremitico, diademate in capo. Rosarii corona in manu dextera, baculoque inninitus in sinistra in cuius basi similiter deaurata habentur sequens inscriptio Sanctus Corradus. Et in cornu epistule altera consimilis statua rapresentans effigem Divini Nicolai Barensi Pontificalibus vestibus induti cum Mitra in capite, baculo Pastorali sinixstra manu tenentis, dextera vero Breviarum ac super eo tres aurei pomi, ut comuniter depingi solet, cum sua basi, ubi legitur Sanctus Nicolaus.
Di conseguenza, va da sè chenella paladell'Assunta - una volta aggiunto, -a devozione di mons. Salerni, il S. Antonio da Padova «con tonsura monacale» - Giaquinto recupererà e insieme rigenererà il repertorio santoriale che da secoli dotava il vecchio altare. Ragion per cui si presume, anzi si dovrebbe dare per scontato il fatto che le figure di S. Pietro e di S. Paolo, con quelle di
S. Nicola di Bari patrono della Provincia e di S. Corrado patrono della Città, facevano parte dell'antico programma iconografico, che obbediva a precisi canoni cultuali [...] della chiesa diocesana di Molfetta. Pietro, con le chiavi in mano, [...], seguito da Paolo, di cui si vede il volto e la mano che impugna la spada, strumento del suo martirio. S. Nicola, in vesti liturgiche e con l'attributo suo specifico delle tre sfere, [...]. S. Corrado con tunica bianca e pallio eremitico, secondo quanto aveva stabilito il vescovo Francesco Marini il 9 gennaio 1669 [...], trattiene con la sinistra il 'lenzuolo' e guarda la Vergine [...]; in basso gli attributi della sua provenienza regale: la corona e lo scettro.
Niente di più, quindi, che un'esercitazione scolastica su un tema iconografico, trito e ritrito in margine al più documentato tra i dipinti molfettesi di Corrado. Il resto, sempre per amore di verità intendiamo affidano alle stampe in un secondo momento, perchè molti rimangono i dubbi, gli interrogativi, le ipotesi che accompagnano l'operato del maestro e che, tuttora, esigono risposte più congrue. Soprattutto per quanto concerne gli anni che precedono il suo trasferimento a Roma (marzo 1727). Esattamente vent'anni prima che fosse eseguita l'Assunta e Santi, che il pittore - «dopo l'esemplificazione dello stemma episcopale del Salerni» -firmò e datò sul lato postico della tela con l'orgogliosa conferma della sua origine molfettese (FABRITIUS ANT: SALERNUS/ EPUS MELPHICTEN/ 1747/ CONRADUS GIAQUINTUS MELPHICTI PICTOR)
Una Molfetta che, dalla Città Eterna al Piemonte, da Napoli alle Marche, da Cesena alla Spagna
Corrado portò sempre nel cuore evocandone le luci dorate sottocosta in primavera dai rosa corallo dell'alba e dagli azzurri cobalto del vespero. Quasi a carpire il segreto dei colori liquidi e trasparenti, festosi e tersi non meno del cristallo di rocca, anche quando la tempesta prende il sopravvento sul sereno tra squarci di cielo e di mare; tra […] campiture sempreverdi, [...]; tra colori adriatici e «venezianeschi» in grado di suffragare la favola del mito e la vitalità della fede [...], ammantando di volta in volta eroi omerici e virgiliani, putti ancora in fasce ed angeli adolescenti, santi e satiri con ninfe e Vergini senza Tempo.
In oltre, il rinvenimento della data sul retro del dipinto dell'Assunta a lungo riferita all'attività post-ispanica del Giaquinto, conferma a scanso di equivoci quello che le fonti documentarie «dell'Archivio Diocesano di Molfetta hanno già legittimato», sovvertendo l'indicazione cronologica suggerita dal d'Orsi. Probabilmente in uno dei restauri ottocenteschi, eseguiti per mano di Nicola Nisio (1858) o di Michele Magarelli (1898), con cui si provvide a schiodare in parte la tela dall'armatura lignea (fatto dimostrato dalla presenza di chiodi diversi dagli originali) non si diede molto peso al rinvenimento della firma e, così facendo, essa passo inosservata pure alla più attenta storiografia. D'altra parte, la paternità dell'opera non era mai stata messa in discussione e la stessa precisazione cronologica almeno per gli studiosi di storia patria dovette apparire di secondaria importanza.
Anche la pala del Giaquinto seguì la stessa sorte della Dormitio Virginis e fu allocata «nella nuova catedral chiesa fuori il Borgo», edificio «che prima era degli espulsi Gesuiti», per essere posizionata sull'altare «dinotante S. Maria dell'Assunta, [...] sito a mano dritta della crociera» (1785).
Infatti, con la soppressione della Compagnia di Gesù (1767), partiti i padri, la chiesa rimase vuota e si attese che fosse trasformata in nuova cattedrale, sulla scorta di una proposta avanzata agli organi competenti da mons. Celestino Orlandi passato a miglior vita il 13 febbraio 1775.
Era necessario conseguire dal governo borbonico il regio assenso: operazione che ebbe una buona riuscita grazie all'interessamento di mons. Gennaro Antonucci, eletto vescovo della Diocesi di Molfetta il 20 luglio 1775, il quale con il suo autorevole intervento presso la "Suprema Giunta di Educazione" a Napoli, dove era nato nel 1726, ottenne l'aggregazione alla «Mensa Vescovile di Molfetta del Collegio e dei Giardini» appartenuti ai Gesuiti, per convertirli «in Cattedrale, Episcopio e Seminario col canone di 221 ducati annui».
All'Antonucci va riconosciuto pure il merito di aver avviato con fervore inusitato, sostenendone le spese, il progetto di trasformazione tardo-settecentesca della chiesa; progetto che, per […] linee generali, prevedeva l'ampliamento della zona presbiteriale, l'adattamento delle cappelle alle differenziate differenze di culto, il rinfrescato cielo degli ornati e la notevole decorazione a stucchi, le tempere delle volte e l'innalzamento del campanile [...] di pari passo con l'apertura dell'«entica» a mo' di cerniera viaria tra il Borgo e largo S. Angelo (1783 - 90).
Una prima tornata di interventi fu affidata all'architetto napoletano Pietro Lionti (1776), cui subentrò Giuseppe Gimma «Regio Ingegniere [...] della Città di Bari», che curò la direzione del grosso dei lavori negli anni 1778-85, compreso il cappellone dell'Assunta con la definitiva sistemazione del dipinto del Giaquinto.
La decorazione a stucco elaborata da disegni del Gimma fu realizzata da maestranze provenienti da Rancio Valcuvia, piccolo centro del Varesotto. Si trattava dei fratelli Carlandrea, Domenico e Giuseppe Tabacchi, attivi tra Puglia e Basilicata dal 1772 agli inizi dell'Ottocento, i quali imitandone slancio e levità - nel plasticare la monumentale Assunta e Angeli dietro l'altar maggiore, lungo la curvatura della parete absidale - certo tennero a mente il modello di Corrado: un omaggio alla memoria, un atto quanto mai dovuto.
La pala giaquintesca fu collocata sull'altare che conteneva «il Sacro deposito del Protettore S. Corrado [...] ove è stato sempre solito conservarsi» e, nel concreto, condizionò le misure e la forma mistilinea della tela raffigurante l'Addolorata. Un olio che mons. Antonucci, a bozzetto approvato, aveva commissionato a Fedele Fischetti (Napoli 1732 - 1792), che lo terminò nel 1778 per il dirimpettaio cappellone dell'Addolorata.
Un Fischetti lodato nel Sud dello Stivale per le pitture «fin troppo note» della Reggia di Caserta, realizzate dopo la morte di Luigi Vanvitelli avvenuta nel 1773. Lo stesso Vanvitelli che, negli ultimi anni di vita trascorsi dal Giaquinto nella città partenopea al suo rientro dalla Spagna, aveva collaborato con lui alla decorazione della sacrestia di S. Luigi di Palazzo, il monastero reale (gennaio 1764 - luglio 1765).
Ma l'opera del Fischetti non regge, allo scoperto, il confronto con quella di un colorista per vocazione, come Corrado: che rimane un Luca Giordano «trasposto in rococò», artefice di «diafanezze sempre più spinte su forme tuttavia polite». Diafanezze che sottolineano dentro e fuori Roma, prima e dopo la nostra Assunta e Santi, la centralità del Molfettese sulla genninale formazione di Francisco Goya y Lucientes (Fuentetodos, Saragozza 1746 - Bordeaux 1828), «ultimo tra i pittori antichi primo tra i moderni»,
che il Longhi fin dal 1954 aveva magistralmente stemperato in un'efficacissima pagina dedicata alla cultura di Via Condotti e alla pala trinitaria che Corrado dipinse per la chiesa domenicana degli Spagnoli, affiancato dalle testimonianze dell'allievo madrileno Antonio Velàzquez.
Furono questi i segnali che Goya dimostrerà di aver inteso per quel che erano: evocazioni di forme fluttuanti nell'aria ma che, da sole, bastavano con i loro effetti ad infinitum a suggerirgli soluzioni per nuovi contenuti. Perciò, non stupisce più di tanto il fatto che nell'inventano dei dipinti e dei disegni lasciati in eredità dal maestro spagnolo figuravano copie del Giordano e del Giaquinto.
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16/03/2012
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