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5° app. con la rubrica curata dal giudice Antonio Maralfa:''Il ricordo più triste (6 febbraio 1980)''

5° app. con la rubrica curata dal giudice Antonio Maralfa:''Il ricordo più triste (6 febbraio 1980)''


Il ricordo più triste (6 febbraio 1980)
Negli anni 1976 e 1977 la città di Andria venne infestata da una banda di giovani rapinatori privi di scrupoli, che sparsero il terrore anche per il frequente uso di armi da fuoco e di esplosivi.
La sera del 31 dicembre 1976, mentre si accingeva a chiudere la propria macelleria, venne assassinata con un colpo di pistola al petto Riccardina Basile di 30 anni, madre di due figli. Senza esito le indagini.
Il pomeriggio del 20 agosto 1977 sulla provinciale Andria-Castel del Monte venne ucciso a colpi di pistola, mentre si trovava solo a bordo della propria autovettura, il perito industriale tedesco Duwel Burkhard di 26 anni, il quale stava dirigendosi verso il castello. Al povero giovane vennero rapinati 400 marchi tedeschi.
La misura era ormai colma e non erano più tollerabili le nostre cattive figure, note anche all’estero.
Venni incaricato delle indagini assieme al collega Massimo Lucianetti di Foggia, un magistrato cui non facevano certo difetto coraggio e decisione. Non ci concedemmo un attimo di riposo ed a metà del settembre 1977 (dopo meno di un mese dal delitto Burkhard) la banda di rapinatori assassini venne individuata e messa in carcere con una complessa operazione dei carabinieri di Andria.
Nel corso degli interrogatori due degli arrestati resero ampie e dettagliate confessioni alla presenza dei rispettivi difensori: il primo ammise la propria partecipazione all’omicidio della macellaia, indicando gli altri due complici; il secondo confessò pienamente l’omicidio del giovane perito tedesco, indicando altri tre complici.
I genitori del Burkhard, tramite consolato, fecero pervenire il loro ringraziamento per la pronta cattura dei responsabili del terribile delitto.
Il processo si discusse tra la fine del 1979 e gli inizi del 1980. L’accusa la sostenni io, che richiesi la condanna di tre imputati all’ergastolo e 25 anni di reclusione per ciascuno dei due giovani che avevano reso confessione.
Però nè le dettagliate ammissioni di colpevolezza nè la mole delle altre prove ed indizi che gravavano sugli accusati furono sufficienti per la Corte d’Assise di Trani (presidente il dott. Giuseppe Viesti), la quale, con la sentenza del 6 febbraio 1980, emessa al termine di otto ore di camera di consiglio, assolse per insufficienza di prove tutti gli imputati, compresi i due che avevano reso confessione alla presenza dei loro difensori.
Il clamore per questa incredibile assoluzione fu enorme e la giustizia dovette indossare le insegne del lutto. I genitori del povero perito industriale tedesco, che avevano visto uno spiraglio di conforto al momento della cattura degli assassini, dichiararono di essere stomacati e di non volere sentire più nemmeno nominare l’Italia.
Difficile descrivere i sentimenti, che travagliarono il mio animo, di fronte a quello che non esito a definire un vero scempio del diritto e della giustizia. Tali sentimenti risultano efficacemente esternati nelle ponderose motivazioni che presentai a sostegno dell’appello avverso la sentenza assolutoria (60 cartelle dattiloscritte contenenti critiche vibrate e talvolta assai pesanti).
Ero sicuro che l’inspiegabile decisione tranese sarebbe stata travolta a Bari, ma il diavolo ci mise ancora una volta la coda. Infatti, per somma iattura presentò dichiarazione d’appello anche il sostituto procuratore generale di Bari, il quale, al momento di redigere i motivi di impugnazione, prese un mezzo foglietto intestato e ci scrisse sopra sei righi, in cui testualmente dichiarava di rinunziare alla presentazione dei motivi a sostegno dell’appello, perchè la sentenza impugnata, sorretta da una congrua motivazione, “rispecchia la realtà processuale e come tale non appare suscettibile di riforma”.
E qui si verificò un’altra cosa incredibile ed assurda, perchè il collega barese rinunziò alla propria impugnazione, senza avvertire neppure la curiosità di prendere visione dei miei motivi d’appello, che non aveva potuto leggere, perchè non erano stati ancora depositati.
La rinunzia innanzi descritta, che costò al mio intempestivo ed affrettato collega tre minuti di lavoro, finì per vanificare il mio atto di appello, costatomi un mese di dura fatica. E nonostante l’intervento del procuratore generale, mirato a richiedere e sostenere che almeno il mio appello venisse discusso e deciso, la Corte d’Assise d’appello di Bari ritenne che la rinunzia paralizzasse anche la mia impugnazione e con ordinanza del 26 novembre 1982 dichiarò “inammissibili per rinunzia” i due atti d’appello, quindi anche il mio. Risultato: sei giovani omicidi in libertà senza alcuna possibilità per le vittime di tentare di ottenere giustizia nel processo di secondo grado.
Questo è stato l’unico processo, che mi ha procurato qualche sveglia notturna anticipata. Continuo a ritenere ingiusta ed indigesta la norma (valida anche oggi), che consente ancora al procuratore generale di rendere inefficace l’impugnazione, proposta da altro magistrato del pubblico ministero, con un semplice atto di immotivata rinuncia, che a volte potrebbe essere determinato da pressioni, compromessi o qualcosa di più.
Anche nell’ipotesi di impugnazione carente o infondata, dovrebbe essere sempre la corte di secondo grado a decidere, dirimendo qualsiasi dubbio!
A mio parere, quanto è avvenuto a Bari per il processo alla banda andriese, induce a seria riflessione sul modo in cui, anche per l’esistenza di norme non condivisibili, possono concludersi alcuni processi nella nostra Italia, definita da molti “culla del Diritto”. Una definizione che, quando penso ai due terribili delitti di Andria in danno di Riccardina Basile e di Duwel Burkhard, mi fa amaramente sorridere.


22/01/2013
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