Note sull'economia molfettese tra Ottocento e Novecento 4^ parte - Tratto dal 25° Quaderno dell'Archivio Diocesano - a cura di Arcangelo Ficco
Un opificio modello
Lo stabilimento Pansini Gallo & C.i nasce formalmente nel 1864 a seguito della costituzione,
avvenuta un anno prima, di una società in accomandita.(79) Inizialmente la società fu costituita nel
1862 come società commerciale in nome collettivo da quattro negozianti molfettesi, Sergio Fontana,
Francesco Pansini, Felice Panunzio, Luigi Gallo, dei quali Fontana e Panunzio, insieme a
Vitantonio Pansini, padre di Francesco, abbiamo visto essere caricatori di olio per l’estero nel 1860.
La società, con capitale sociale di £ 25.500 ugualmente conferito, ha come scopo l’esercizio della
compravendita «di diversi generi, derrate e mercanzie tanto nazionali che estere, cioè di mandorle,
vini, grani, coloniali, tessuti e quant’altro su cui potrebbe cadere un traffico e niente eccettuato»,
come pure attività di spedizione, commissione e intermediazione, ivi comprese le attività bancarie.(80)
Questo tipo di contratto societario mette in evidenza una caratteristica abbastanza diffusa
nell’imprenditoria molfettese del tempo, da un lato la limitata disponibilità di capitali che per il
bisogno sempre urgente ed impellente di una più larga e rassicurante accumulazione si traduce in
una scarsa specializzazione delle stesse attività mercantili e industriali, dall’altro la considerazione
della produzione industriale non come una scelta prioritaria, bensì come una sorta di corollario o di
ambito integrativo dei guadagni procurati con il commercio.
Non è un caso che pochi giorni prima della definizione della società commerciale, i quattro soci si
garantiscano tutti, in parti eguali, la proprietà del pielago San Spiridione, di poco più di 79 tonnellate, fino ad allora appartenuto solo per metà a Luigi Gallo, e per l’altra metà ad un altro
importante negoziante molfettese, Berardino Rotondo, per meglio gestire i loro traffici.(81) Sembra
obbedire ad una più matura logica industriale, ancorchè senza migliore fortuna, l’imprenditoria
straniera, come si potrà considerare ad esempio nel caso delle iniziative di Giorgio Laquai, che si
analizzeranno in dettaglio più avanti,.
Nel 1863, quando si decide di intraprendere l’attività industriale per marcare una maggiore
specializzazione, senza che il tradizionale giro di affari venga meno,(82) si procede all’aumento del
capitale sociale e alla individuazione di nuovi soci, mantenendo la forma societaria della
accomandita, sicchè agli originari soci Sergio Fontana, Francesco Pansini, Felice Panunzio, Luigi
Gallo si aggiunsero, in qualità di accomandanti, Matteo Pomodoro, negoziante, e Bonifacio Nicola
Pansini, dottor fisico, con una crescita del 150% del capitale sociale, lasciando inalterata «la
estensione delle operazioni commerciali».(83) La scelta della forma societaria, che garantisce ai soci
accomandanti la massima libertà nel movimento dei capitali, non risponde soltanto a esigenze di
opportunità finanziaria, ma anche al bisogno di affermare un senso nuovo dello spirito pubblico.
Dando ai soci facoltà di poter aumentare, ridurre ed anche ritirare a piacimento i loro capitali, si
ritiene di favorire lo spirito di associazione, «del tutto spento per il falso sistema del passato
reggime, sospettoso e poco provvido».(84) Certo è che consentì di trovare, con l’inserimento di nuovi
soci, i finanziamenti necessari per il decollo industriale, ferma restando la cautela di immobilizzare
in macchine e fabbriche solo la metà del flusso finanziario, «in modo da tenere il capitale fisso ad
un valore tanto basso da poterlo ricavare anche in caso di liquidazione».(85)
E’ nel 1871 che si definisce, fino allo scioglimento avvenuto nel 1909, a causa dello stato
fallimentare dell’azienda, l’assetto di vertice della società, quando, recedendo il Fontana «per le sue
gravi cure di famiglia» e scegliendo il Panunzio di essere soltanto socio accomandante, l’impresa
«[è] in rapporto soltanto de’ Signori Francesco Pansini e Luigi Gallo, è come se fosse stata fra
questi due esclusivamente formata e costituita».(86) La società progredisce, garantendo un utile medio
annuo del 12%, è finanziariamente solida, tanto che nel 1875, quando alcuni soci accomandanti
avanzano domanda per il ritiro dei loro capitali per oltre 100.000 lire, la restituzione è subito fatta, e
vede crescere il valore dell’impianto, assicurato nel 1884 per 540 mila lire.(87)
A questa data l’opificio, ubicato a «via Piano di Mizzio», si compone di quattro settori produttivi: il
mulino, il pastificio, il panificio e il fattoio. Il pastificio costituisce al momento il ramo principale
dell’industria, produce giornalmente oltre 4 tonnellate di paste «da vermicellaio», di buona qualità,
non colorate artificialmente, tanto da essere preferite sul mercato triestino persino alle napoletane.
La produzione annua ha superato nel 1883 il milione di kg, decuplicata in poco più di un decennio e
smerciata anche all’estero (Austria, Turchia ed Egitto), ma prevalentemente in Italia, in particolare
alle truppe italiane.
Il panificio fu impiantato nel 1875 per la produzione di gallette, «per uso della marina», e di
«biscottini di fantasia», con «un forno continuo meccanico della specie travelling-oven inglese», a
fuoco indiretto, dotato di valvole e pirometro per regolarne il calore, della capacità produttiva
giornaliera di 5 tonnellate. La legge sul dazio consumo ne impedisce ogni ulteriore sviluppo,
giacchè lo stabilimento si trova ubicato nella cinta daziaria.
L’attività molitoria, che è stata quella iniziale, non ha conosciuto particolare espansione: le 7 paia di
macine lavorano giorno e notte, stabilizzando la produzione giornaliera sui 100 quintali di farina.
Non meno importante è stato inizialmente il fattoio, per l’estrazione dell’olio dalla sansa, prima di
utilizzarla come combustibile per alimentare le caldaie. Non conoscendosi ancora bene quello del
solfuro al carbonio, fu adottato un sistema a pressione, con l’impianto di 6 presse idrauliche a 300
atmosfere, tre frantoi e due accumulatrici. Quando si affermò il metodo dell’estrazione con il
solfuro, il complesso macchinario, acquistato dalla ditta Pattison di Napoli, fu «invertito» per la
macinazione delle olive, acquistate da Andria e Corato, dove i fattoi erano insufficienti. L’olio che
si ricava è ottimo «per conciare gli olii di seme», perciò è molto apprezzato a Marsiglia, «ove si
pagano molto più delle migliori qualità degli olii fini da tavola di questa provincia».
A volte le olive vengono acquistate in provincia di Foggia, ma la mancanza di carri-merci a San
Severo obbliga a tenere le olive ammucchiate per parecchi giorni nella stazione di quella città e ciò
incide negativamente sulla qualità dell’olio. La capacità produttiva è elevata, potendosi molire fino
a 50 tonnellate di olive al giorno, ma l’azienda punta soprattutto alla qualità del prodotto. Per
evitare che l’olio del nocciolo delle olive, che ha un sapore sgradevole, guasti l’olio prodotto, è
necessario macinare leggermente le olive, che poi si premono a 100 atmosfere, e si ottiene olio di
alta qualità. Successivamente i pannelli sono sottoposti alla pressione di 250 atmosfere e si ottiene
olio di qualità andante; infine si torna a macinare la sansa e la si sottopone alla massima pressione,
dopo averla riscaldata, per ottenere olio da sapone, di conseguenza si ottiene il 70% di olio
superiore, il 25% di olio fino andante, il 5% di olio da sapone. Negli anni fertili in 40 giorni si
macinano 1000 tonnellate di olive, che danno una resa di 200 tonnellate di olio, spedito oltre che in
Francia anche in Austria.
Nell’opificio sono installate due macchine a vapore, una di 20, l’altra di 16 cavalli, che utilizzano
alternativamente due caldaie di 36 cavalli a fuoco interno, alimentate con acqua di mare: quando
una è in funzione, l’altra è ripulita dei sali che si sono depositati. Nonostante le due macchine
lavorino giorno e notte sono molto efficienti e ben funzionanti grazie all’opera di sistematica
manutenzione dell’ingegnere scozzese Robert Oliver, che dispone all’interno dello stabilimento di
un opificio meccanico organizzato a tale scopo.
Vi lavorano circa 100 dipendenti con una paga che varia da 180 a 15 lire mensili. Ciò che va
segnalato, in modo particolare, è l’aspetto paternalistico del trattamento dei lavoratori, per così dire
la sensibilità sociale della direzione aziendale, che non accetta lavoranti di età inferiore ai 13 anni e
preleva dalla busta paga il 5% mensile per rifonderlo a Natale e Pasqua, affinchè gli operai possano
pagare «il pigione» delle case. Ancor più conta il fatto che essi siano obbligati ad associarsi ad una
delle società di mutuo soccorso presenti in città, «pagando la Ditta i diritti di buon’entrata». Di
conseguenza, la società operaia, in caso di malattia, li provvede di vitto, medicine e medico,
assicura loro una pensione per la vecchiaia e liquida anche le spese funebri alla loro morte; per parte
sua la Ditta assicura a sue spese gli operai contro gli infortuni sul lavoro con le Assicurazioni
Generali di Venezia.
79
AST, Fondo notarile, notaio Ignazio Fontana, vol. 2365, atto del 18 luglio 1863; BCM, Pansini Gallo & C.i di Molfetta. All’esposizione di Torino del 1884, Bari 1884, p. 2.
80
AST, Fondo notarile, notaio Ignazio Fontana, vol. 2364, atto del 29 agosto 1862.
81
Ibidem, atto del 19 agosto 1862. Il pelago è valutato 1000 ducati, pari a £ 2250.
82
Si vedano dello stesso notaio nel vol. 2373 gli atti del 31 gennaio e 20 settembre 1871, relativi ad attività di “banchiere” e di grossista di Luigi Gallo.
83
Ibidem, vol. 2365, atto del 18 luglio 1863.
84
BCM, Pansini Gallo & C.i, p. 3.
85
Ibidem, p. 4.
86
AST, Fondo notarile, notaio Ignazio Fontana, vol. 2373, atto del 5 febbraio 1871. Le notizie sullo scioglimento e liquidazione della società sono in BCM, Contratto di abbandono di beni della Ditta Pansini Gallo & C.i e del Sig. Vito Pansini del 18 ottobre 1909 autentico per Notar Berardino Rotondo, Molfetta 1909.
87
BCM, Pansini Gallo & C.i, p. 4. A questa fonte si rimanda per tutte le successive notizie, salvo diversa indicazione.
23/01/2013
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