Note sull'economia molfettese tra Ottocento e Novecento 5^ parte - Tratto dal 25° Quaderno dell'Archivio Diocesano - a cura di Arcangelo Ficco
Le industrie dello sfarinato e della produzione di olio al solfuro
Tra le imprese che caratterizzano il panorama produttivo molfettese del secondo Ottocento, va
ricordata quella fondata da Vincenzo Gallo. Capitano della marina mercantile, Vincenzo Gallo,
«forte, robusto, tarchiato, dal collo taurino, un vero tipo di marinaro pugliese», viene descritto dai
contemporanei come il tipico self made man: «La sua vita fu avventurosa, rasentando sino il
fantastico, qualche volta il romanzo, talune altre la leggenda, ed attraversò a volta a volta tutte le
fasi, dal marinaro mercantile, al congiurato politico, dal piccolo al grande industriante, dal modesto
borghese al facoltoso proprietario, dal modestissimo casato al Cavalierato della Corona d’Italia, che
gli si stava meritamente decretando». Massone impenitente sino alla morte, «la sua religione fu
Patria, lavoro, famiglia».88 Avendo partecipato ai moti del ‘47-‘48, subì una dura condanna e fu
esiliato ad Altamura.
Tornato a Molfetta nel 1860, fu nominato ufficiale della Guardia Nazionale e consigliere
comunale,89 dedicandosi nel contempo a un modesta attività commerciale in qualità di piccolo
imprenditore nella fabbricazione di cremore e di alcool, con altrettanto modesto opificio alla
contrada Torre del Sale.90 Questa attività non gli arrideva molto, pertanto in società con Ilarione
Introna fondò nel 1873 a Trinitapoli uno stabilimento per la produzione di farine, la cui gestione
affidò al figlio Carmine, che, ormai provetto capitano di gran cabotaggio della marina mercantile
dell’Italia meridionale, dovè convertirsi in capitano d’azienda, e, stando ai risultati, con
considerevole successo. L’anno successivo l’Introna recede dalla società, ricevendo oltre al capitale
versato di 12.400 lire un profitto pari al 21%, a dimostrazione del buon andamento dell’azienda.
E’ così che nasce la Vincenzo Gallo & Figli, in continuità con la precedente società, che ha la sua
ragion d‘essere sempre nello stabilimento di Trinitapoli, che si rivela una vera gallina dalle uova
d’oro, giacchè vi ebbe «guadagni immensi, insperati, favolosi».91 Nel 1874, dunque, Vincenzo
Gallo è proprietario di due stabilimenti industriali, quello per la produzione di cremore e alcool a
Molfetta, affidato al figlio Guglielmo, che poi lo gestirà in proprio, assumendone direttamente la
locazione dall’agosto 1877 all’agosto 1880, e l’altro in Trinitapoli con mulino, per la produzione
dello sfarinato, nella cui gestione subentrano ben presto gli altri figli Cristallino, Zaccaria e
Pasquale. Le possibilità di accumulazione della famiglia crescono rapidamente, grazie a utili che nel
1875 si aggirano intorno al 30%, ma le esigenze molteplici di investimento impongono a volte la
necessità di rateizzare gli acquisti, come nel caso dell’ampliamento delle proprietà adiacenti al
«lamione», sede dello stabilimento per la produzione di cremore e alcool.
Nel 1880 Vincenzo Gallo permuta il comprensorio di fabbriche a Torre del Sale con un terreno in
contrada Torre dell’Abate, dove, nei pressi della stazione ferroviaria, sorgerà a partire dal 1882 un
nuovo grande stabilimento a vapore, progettato dall’ing. Angelo Panunzio, che impiegherà
macchinario fabbricato dalla Wilson-Maclaren di Sampierdarena, per la produzione di farine e paste
e che vivrà sotto la ragione sociale Vincenzo Gallo & Figli di fatto a partire dal 1881. A dare l’idea
del nuovo dimensionamento dell’impresa sarà sufficiente ricordare che la neonata società ha un
capitale di oltre 331 mila lire, pari a circa 14 volte il capitale della società costituita otto anni prima.
Successivamente, nel 1885, la nuova società acquisisce il contiguo stabilimento per la fabbricazione
di alcool della ditta in liquidazione Samarelli DeDato & C.i, per oltre 49 mila lire, dove si
produrranno anche «acque gazzose, seltz» e cremore di tartaro.92 Appare evidente, quindi, che le
iniziali attività produttive vengono riorganizzate su vasta scala in Molfetta nel giro di dieci anni,
dopo la dismissione dello stabilimento di cremore e alcool a Torre del Sale e di quello di
Trinitapoli, venduto nel settembre 1883.
I successi iniziali tuttavia non sono durevoli. Già negli ultimi anni di vita di Vincenzo Gallo, morto
nel 1889, cominciano a intravedersi i sintomi di un processo recessivo che porterà di lì a qualche
anno alla crisi dell’azienda. Le ragioni sono diverse. Innanzitutto la forte concorrenza degli
omologhi stabilimenti molfettesi, in particolare quello attivato nel 1888, nei pressi dello
stabilimento dei Gallo, di Lanari Maggialetti Samarelli & Ci che, grazie a un nuovo sistema
produttivo, forniva un prodotto migliore «ed a più buon mercato», facendo perdere «alle macchine
di Gallo ogni valore».93 Poi, ovviamente, la stretta creditizia conseguente alla crisi economica degli anni ’80-‘90, che non consente gli «accredenzamenti» necessari per gli investimenti indispensabili
ad un’industria che conosce una celere obsolescenza dell’apparato produttivo e che pertanto brucia
nel giro di poco tempo ampi margini di profitto.94
Prova ne è il fatto che quando nel gennaio 1885 nasce ufficialmente la Vincenzo Gallo & Figli, la
quota di capitale di Vincenzo Gallo si aggira intorno alle 135 mila lire, mentre tre anni dopo,
nell’ottobre 1888, è pari a poco meno di 129 mila lire, nonostante in quest’arco di tempo gli siano
spettati utili superiori a 19 mila lire: ciò significa che buona parte dei profitti deve essere reinvestita
in capitale fisso, che passa da £.218.123,98 del 1885 a £.301.973,98 del 1888, per la manutenzione
di un apparato industriale che brucia grosse fette di liquidità e chiede remunerazioni sempre più
alte, che la situazione di mercato non consente.95 E’ questo il tallone d’Achille dell’industria
molfettese del tempo.
Anche la Lanari Maggialetti Samarelli & Ci, nonostante il suo sistema di produzione innovativo
avesse messo in crisi l’azienda di Vincenzo Gallo, andrà incontro, come altre imprese molfettesi del
settore, a serie difficoltà di natura finanziaria, in quanto, «mancando di capitali propri e necessari
per l’esercizio della industria, il lavoro non può giammai essere continuativo e tale da produrre
alcun profitto». Essa stessa aveva conosciuto rapidamente la necessità di una ristrutturazione
societaria nel 1886, quando a soli due anni dalla fondazione come Lanari Maggialetti De Gioia &
Ci, per il fallimento di due dei quattro soci iniziali, i fratelli Sergio e Pantaleo De Gioia, si era
ricostituita come Lanari Maggialetti Samarelli & Ci.96
Questa vicenda conferma quel carattere strutturale di debolezza della imprenditoria industriale
molfettese: il particolare circuito finanziario tra attività commerciali e investimenti azionari, con
alte percentuali di rischio per l’intero assetto economico-finanziario, in quanto buona parte dei
capitali investiti non derivano da capitali propri ma dal giro bancario. I fratelli De Gioia, figli d’arte,
che gestiscono un negozio di cuoiami e pellami, vissuti «tra uomini arricchiti in pochi anni col
commercio e l’industria, non [dubitando] che le [loro] condizioni non si sarebbero migliorate»,
pensano di fare il grande salto investendo nella De Gioia & Ci degli spiriti 12.500 lire, perdute
interamente per il fallimento dell’azienda; ciononostante, oltre a più modesti investimenti bancari,
Pantaleo, «giovine, pieno di lusinghiere speranze, [che] si riprometteva miracoli dal suo lavoro ed
economia», accetta di far parte della direzione della Lanari Maggialetti, acquisendo un’azione di
12.000 lire, e nel contempo acquista 17 vigne di uliveti per 22 mila, una diversificazione che poco
ha a che fare con l’attività di partenza e che gli crea uno sbilancio 42.000 lire.
Lo stesso percorso segue il fratello Sergio che investe nella Lanari Maggialetti 11 mila lire e 20
mila nell’acquisto di immobili, sobbarcandosi annualmente il peso di 8 mila lire di interessi, come
in un inconsapevole gioco d’azzardo, proprio di giovani vissuti tra commercianti che hanno visto
«quasi per miracolo arricchire dal commercio e dalle industrie». E’ la «febbre ardente di voler
arricchire» che colpì, come un’epidemia, molti giovani spericolati, di cui si ritrovano tracce negli
atti fallimentari. Dopo le ripetute cattive annate del ricolto oleario, «ultimamente il cholera ha
colmata la misura delle sventure», rendendo inevitabile il tracollo.97
E il cerchio si può chiudere anche in direzione opposta, quando la De Gioia Spadavecchia e la De
Gioia De Nichilo messe in liquidazione contribuiscono a mandare sul lastrico una florida azienda di tessuti, quella di Gaetano De Gioia, che nelle due società aveva investito, e perduto, 21 mila lire.98
Sorte non diversa racconta la storia della Panunzio Azzollini & Ci, che, costituita nell’agosto 1883,
«non potendo più oltre continuare per la ristrettezza dei capitali sociali, per le perdite patite, per la
poca attitudine dei suoi Amministratori», nel 1888 si scioglie e dalle sue ceneri nasce la Pansini
Poli Magrone & Ci, in quanto alcuni dei vecchi soci sono «fiduciosi ancora di trarre modesti utili
dalle industrie dello sfarinato e pastificio».99 Una fiducia non del tutto fondata, giacchè nel 1908 la
società è liquidata, rinascendo tuttavia come Fontana Magrone Pansini & Ci.100
Lo stesso dicasi per la Altomare Allegretta & Ci, costituita nel dicembre 1884 e divenuta quattro
anni dopo Allegretta Maglione Turturro & Ci, con inevitabile aumento di capitale sociale,
ulteriormente accresciuto nel 1908 quando, liquidata la vecchia società, nasce la Angelo Allegretta
& Fratelli.101 Sorte non dissimile tocca alla Ciocia Patriarca & Ci, divenuta nel 1901 Ciocia
Sancilio, e alla Balacco Spagnoletti & Ci trasformatasi nel 1895 nella Spagnoletti Attanasio & Ci,
liquidata nel 1914, dopo aver esperito nel 1908 con la Angelo Allegretta & Fratelli l’unico
ragionevole, per quanto inadeguato e limitato, tentativo di alternativa al gioco perverso della
roulette concorrenziale.
Le due società, nell’intento «di impedire i danni che per causa di concorrenza si potrebbero
vicendevolmente arrecare, specie pel fatto che i rispettivi stabilimenti industriali sono a breve
distanza fra loro», dal 1° luglio 1908 al 31 gennaio 1915, con eventuali proroghe successive di 5 in
5 anni, si obbligano a limitare, integrandole, le rispettive attività produttive; «per indennizzarsi le
due società contraenti della impostasi limitazione del proprio lavoro si obbligano di corrispondersi
vicendevolmente il cinquanta per cento dei rispettivi utili sociali netti annuali dell’intera industria e
commercio di ciascuna società (…) Ed ove mai accada che l’assunta limitazione di lavoro procuri
delle perdite anzichè degli utili, le perdite stesse saranno rispettivamente indennizzate sino alla
concorrenza del cinquanta per cento, mercè rimborso dall’una all’altra delle Società».102
Esemplare si può considerare il fallimento nel 1906 della società commerciale in nome collettivo
Ciocia & Sancilio, costituita nel luglio 1901 con capitale di 40 mila lire per l’acquisto e
macinazione dei cereali, la vendita delle relative farine, nonchè la compravendita dei prodotti del
suolo pugliese, secondo criteri imprenditoriali e definizione classici. Inizialmente la società
gestisce, prima in fitto poi in proprietà, un vecchio mulino a vapore appartenuto a Enrico Capriati,
ammodernandolo con macchinario fornito dalla Società Anonima Meccanica Lombarda;
successivamente, nel 1905, la vecchia macchina a vapore viene sostituita con un motore di 80
cavalli a gas della ditta Langen & Wolf di Milano e viene impiantato il pastificio.
L’investimento nei nuovi macchinari determina un cospicuo immobilizzo di capitali di circa 50 mila
lire, ben superiore al capitale sociale investito; a ciò bisogna aggiungere i ratei d’acquisto dello
stabilimento, venduto per 45 mila lire insieme ai vecchi macchinari, che nel giro di due anni si sono
rivelati inadatti. Il capitale sociale è del tutto insufficiente per lo svolgimento di un’impresa che
richiede sempre maggiori margini di investimento, di qui la necessità di ricorrere al fido, ma, a
causa delle distorsione della gestione fra immobilizzi e bisogno di liquidità, parecchi creditori,
invece di allargare il fido, lo restrinsero notevolmente e taluni non lo accordarono più.103
La stessa travagliata storia dell’industria dello sfarinato presenta quella dell’olio al solfuro. Sia pure
in misura più limitata. Dopo il fallimento della De Gioia & Spadavecchia, la produzione dell’olio al
solfuro continuò attraverso la tormentata vicenda della società fondata da Cesare Boccardi, che
scioltasi nel 1879 alla morte del fondatore, si ricompose nel 1881 come Boccardi Carabellese
Fontana & Ci, un’accomandita che annovera tra i suoi soci anche il fiorentino Luigi Matthiessen e
che consumò la sua esistenza nel giro di 8 anni, giacchè nel 1889 la società venne posta in
liquidazione per la perdita di esercizio di 110 mila lire.104 Negli anni ottanta a Molfetta operano tre
stabilimenti, quello di De Gioia Spadavecchia, quello di Sulzberger e quello del Boccardi, spesso in
difficoltà per l’approvvigionamento delle sanse, il cui prezzo è soggetto agli interessi di speculatori
che determinano variazioni al rialzo insostenibili.105
E’ un’industria strettamente legata, più dell’altra, alle sorti dell’agricoltura, di conseguenza «la
storia di questa società [quella del Boccardi], come quella di tutte le altre di Molfetta, si riassume in
poche e tristi vicende; lusingata nei primi anni da prosperi e insperati successi, e travagliata poi
dalla crisi monetaria-agricola, veniva in ultimo, per mancanza di capitali e per grosse perdite subite
dichiarata sciolta».106
Nel 1895 nasce a San Gallo in Svizzera la Laquai & Ci, che non avrà lunga vita, in quanto fallisce
nel giro di qualche anno. Quello del Laquai fu un tentativo, non riuscito, di impresa mirante a
risolvere la debolezza strutturale dell’imprenditoria molfettese, alla quale s’è fatto cenno,
coinvolgendo capitali stranieri, la cui entità gli avrebbe consentito di attivare un processo di
concentrazione industriale, almeno per risolvere il problema della concorrenza locale, e di
specializzare al massimo livello le attività industriali, ampliandole in un settore innovativo, quale
quello della produzione elettrica. Il capitale sociale abbastanza cospicuo per l’imprenditoria
molfettese (£ 1.225.000) consentì alla società di gestire 4 impianti, 3 a Molfetta e 1 a Castellamare
di Stabia. I tre impianti molfettesi comprendevano l’ex Boccardi, l’ex Spadavecchia-De Gioia e il
nuovo a Cala S.Giacomo, detto Centrale, nel quale, accanto all’Olierial per l’estrazione dell’olio, vi
era un impianto elettrico e la saponeria.107
La scelta operata, tuttavia, si rivelò un rimedio peggiore del male, giacchè l’industria molfettese,
oltre che di carenza di capitali, soffriva anche dei limiti della struttura societaria comunemente
utilizzata, quella dell’accomandita, nel caso specifico costituita da due accomandatari, Giorgio
Laquai e Francesco Seitz, in posizione finanziaria piuttosto debole rispetto ai 21 accomandanti, tutti
stranieri, detentori dei due terzi del capitale sociale iniziale.108 La Banca Federale di Zurigo e la
Società di Credito Svizzero, che avevano finanziato le attività dell’impresa, per sua natura
bisognosa di capitale mobile «in vasta misura», si ritrovarono creditrici di «ingenti cifre», di cui
chiesero immediatamente il recupero, anche perchè la società aveva proposto a tutti i creditori la
riduzione del 50% delle rispettive loro ragioni «per non essere nelle condizioni di pagare l’intero».
A nulla era valsa, subito dopo la costituzione della società, l’emissione di obbligazioni per 450 mila
lire intestate ai soci e negoziabili solo tra loro, in quanto l’immobilizzo di buona parte del capitale
in stabilimenti, macchine e utensili aveva depauperato l’azienda del capitale necessario per il suo
funzionamento, e nonostante i 4 stabilimenti avessero inizialmente dato in media un utile annuo di
100 mila lire.
Ma le difficoltà della società sono da attribuire, oltre che alla insufficienza del capitale iniziale,
anche alle condizioni presenti nel contratto sociale, al fatto cioè che prevedesse una «innumerevole
distinzione di incarichi e di incompense fra i socii accomandanti e i socii accomandatarii». Il campo
d’azione dei gestori risultò, pertanto, piuttosto limitato, le loro decisioni non confortate «da pronta e
indiscussa autorizzazione» degli accomandanti, «sia a cagione della distanza di domicilio dei
diversi socii; sia per la impossibilità degli accomandanti di tenersi al corrente delle emergenze di un esercizio industriale posto fuori della loro immediata sorveglianza». La conseguenza di questo stato
di cose fu che tra il 1897 e il 1898 cominciarono a insorgere contrasti tra accomandanti e
accomandatari, «e la fornitura di capitale mobile viene all’Azienda negata».109
Fallito il tentativo di ricostituire la società con l’ingresso di nuovi soci, in virtù di una scrittura
privata, nel 1903 Laquai e Seitz cedono al banchiere barese Emanuele Fizzarotti, che si impegna a
liquidare di suo ogni credito ammesso al passivo del fallimento, tutte le proprietà immobiliari della
ex Laquai &Ci, che nello stesso anno vengono cedute alla Albert Sausse e Ci, la quale costituisce
una nuova società in accomandita. Nasce così la Sausse Ortona Bazard, con 300 mila lire di
capitale, che prende in fitto dalla Albert Sausse e Ci per 3600 lire annue due dei quattro stabilimenti
della ex Laquai &Ci, quello molfettese, denominato La Centrale, e quello sito in Castellammare di
Stabia, mentre l’Albert Sausse e Ci gestisce in proprio gli altri due, gli ex Boccardi e De Gioia-
Spadavecchia.110
Nel 1906 i Bazard recedono dalla società per dar vita insieme a Luigi Gambardella e altri alla
società anonima per azioni Oleificio Molfettese, i cui inizi sono particolarmente floridi tanto che
nella relazione del 1907 del Consiglio di amministrazione si afferma che «per ciascuna azione del
valore nominale di lire mille, può calcolarsi un utile complessivo di trecento». La strategia vincente,
almeno inizialmente, fa tesoro delle difficoltà delle imprese che l’avevano preceduta, e punta non
solo all’acquisto «a prezzo conveniente di un gran quantitativo di sanse vergini per dieci, sei e
quattro anni», ma anche a promuovere l’interesse dei fornitori alla cessione delle sanse, grazie a
contratti con i quali si accorda loro una compartecipazione agli utili netti sociali del 25%.111
Con il passare del tempo, però, le cose si complicheranno, si porrà la necessità di ridurre i costi di
produzione determinati dai trasferimenti della materia prima a Molfetta, circostanza che «mette la
Società in una condizione di inferiorità di fronte alla altre industrie del genere», la direzione
conoscerà continui avvicendamenti in virtù della forma societaria, tuttavia fino al 1913 la società
godrà di buona salute, tanto che tutta la somma degli utili verrà attribuita alle azioni.
Nel dopoguerra lo stato di prosperità dell’azienda viene meno, sia per le richieste operaie di
miglioramenti salariali, sia per l’aumentato costo delle sanse e la forte diminuzione del prezzo
dell’olio al solfuro, così nel 1921, artefice Luigi Gambardella, viene messa in liquidazione e
attraverso una complessa operazione societaria e finanziaria si costituisce, insieme alla barese
Olierie e Saponerie Meridionali, la una nuova società Oleifici dell’Italia Meridionale.112
La storia molfettese dell’ingegnere Giorgio Laquai è legata anche alla creazione di un’altra azienda
che tutti pensavano avrebbe dato prosperità economica all’intera città e una spinta rilevante alla sua
modernizzazione, l’Impresa per l’illuminazione elettrica. Venne fondata nel 1897 come società
anonima per azioni con un modesto capitale iniziale di 200 mila lire e dopo i primi due anni di
relativo successo cominciarono a presentarsi le solite difficoltà dovute «al grave costo del
macchinario e dei materiali elettrici all’epoca dell’erezione dell’impianto, e [all’]esiguità del
capitale», ragion per cui fu necessario ricorrere nel 1901 all’emissione di obbligazioni per limitare il
passivo della società.
Proprio per questo «i bilanci della società non si presentarono mai in condizioni da poter permettere
una distribuzione di utili alle azioni; anzi, prelevati gli interessi da pagare alle obbligazioni e gli
interessi passivi sui debiti, e tolti quei deperimenti che le passate amministrazioni giudicarono
convenienti, i bilanci stessi si chiusero in perdita», con l’inevitabile messa in liquidazione della
società già nel 1901 e l’acquisizione progressiva della maggioranza delle azioni e poi della proprietà
da parte della Società Adriatica di Elettricità di Venezia.113
Eppure, grandi aspettative aveva suscitato la nascita di questa azienda, anche per le prospettive di
ulteriore utilizzo delle sanse, come fa notare in un entusiastico passaggio della sua relazione alla
Scuola Superiore di Commercio di Bari il sindaco della città nel 1899, giacchè, sottoposte a nuovi
processi industriali avrebbero consentito la produzione di «un gas infiammabile che molto si
avvicina al gas luce. Ed ecco che la Ditta Laquai si prepara alla nuova applicazione, sostituendo
questo nuovo gas a quello ricavato dall’antracite per azionare i potenti motori a gas impiantati
nell’officina elettrica. E’ questo un risultato che avrà una importanza capitale per l’avvenire
industriale delle nostre Puglie, come quello che permetterà di sottrarre le nostre industrie al
monopolio delle miniere carbonifere».114
Annotazioni
88
BCM, In morte di Vincenzo Gallo. Albo funebre, s.d., s.l., commemorazione di P. SAMARELLI e G. POLI,
rispettivamente p. 6. e 12-13. Nella commemorazione del Poli (p.14) si ricorda che i suoi fratelli furono tutti
compromessi nell’attività cospirativa e che Guglielmo fu “della gloriosa schiera dei Mille”. Nel 1845 Vincenzo Gallo
padronizza il Benigno, un pielago di 62 tonnellate, su cui sono imbarcati da don Sergio Panunzio olio e mandorle per
complessive 470 cantara: ACM, Cat. 3, vol. 15, fasc. 3/4, Stato nominativo de’ Caricanti e Padroni di Barche, che han
caricato generi in Giovinazzo nell’anno 1845.
89
M. ALTOMARE, Molfetta nel Risorgimento, Bari 1911, p. 55; P. SAMARELLI, In morte, p. 7-8.
90
BCM, Causa civile Gallo-Gallo, Trani 1893, p. 12-15; salvo diverse indicazioni, le notizie riportate nel testo sono
tratte dal predetto opuscolo.
91
P. SAMARELLI, In morte, p. 8.
92
BCM, M. BISCEGLIA, Causa Gallo, Napoli 1894, p. 21. Lo stabilimento Samarelli DeDato & C.i era appartenuto alla
ditta De Gioia De Nichilo: ibidem, A.ORIGLIA-G.MASSARI-M.BISCEGLIA, Risposta a difesa dei Fratelli Gallo, Trani
1894, p. 32. Una descrizione dettagliata dello stabilimento per molino e pastificio è in AST, Società commerciali, b. 17,
fasc. 425, Società in nome collettivo Gallo Vincenzo e figli.
93
M. BISCEGLIA, Causa Gallo, p. 72. Inizialmente con la denominazione di Lanari Maggialetti De Gioia & C, la società
era stata costituita nel 1884 per la gestione di un molino e annesso pastificio; a causa del fallimento di due soci, nel 1886 era diventata società in accomandita semplice Lanari Maggialetti Samarelli & Ci, che all’atto della liquidazione
nel 1905 sarà composta di 33 soci. Nell’assemblea sociale del 26 dicembre 1893, che decide per la proroga di altri 10
anni di attività, risultano soci, tra gli altri, il teologo Giuseppe Binetti, il meccanico mugnaio Antonio Perrone di
Antignano, il bracciale Matteo Berardi di Terlizzi: AST, Società commerciali, b. 18, fasc. 441.
94
A.ORIGLIA-G.MASSARI-M.BISCEGLIA, Risposta a difesa dei Fratelli Gallo, p.36.
95
M. BISCEGLIA Causa Gallo, p. 69-74.
96
AST, Società commerciali, b. 18, fasc. 441, Società Lanari Maggialetti Samarelli & Ci; la citazione è nel verbale
dell’assemblea del 26 dicembre 1895, p.246v. Lo stabilimento della società, liquidata nel 1905, fu acquistato nel 1908
da Giuseppe Caradonna: Puglia d’oro, vol. 1, p. 252.
97 Ibidem, Fallimenti, fasc. 74, Fallimento Pantaleo De Gioia fu Gaetano 1886; Fallimento Sergio De Gioia fu Gaetano
1886. L’espressione «febbre di arricchire» è ibidem, fasc. 73, Fallimento Matteo de Gennaro
98 Ibidem, Fallimenti, fasc. 74, Fallimento Gaetano De Gioia di Maurangelo 1893.
99 Ibidem, Società commerciali, b. 17, fasc. 420, Società in accomandita semplice sotto la ragione sociale Pansini Poli
Magrone e Ci. La continuità tecnica tra la prima e la seconda società è data dalla presenza in entrambe di Gaetano
Panunzio, possessore di una quota di £.8.800 , definito capotecnico e capo pastaio.
100 Ibidem, b. 20, fasc. 491, Società in accomandita semplice Fontana Magrone Pansini & Ci.
101 Ibidem, b. 17, fasc. 416, Società in accomandita semplice Allegretta Maglione Turturro & Ci; b. 20, fasc. 490,
Società in nome collettivo Angelo Allegretta & Fratelli.
102 Ibidem, b. 20, fasc. 485, Scrittura privata tra le ditte A. Allegretta & Fratelli/Spagnoletti Attanasio & Ci; sulla
Ciocia Patriarca & Ci e Ciocia Sancilio, ibidem rispettivamente b. 17, fasc. 430 e b. 19, fasc. 465.
103 Ibidem, Fallimenti, b. 71, Fallimento Ciocia e Sancilio. La società sperò di uscire dalle difficoltà prima confidando
nella costituzione del consorzio dei mulini pugliesi promosso dal banchiere Emanuele Fizzarotti, poi nella costituzione
della società anonima di Pasquale Armenise, che avrebbe dovuto incorporarla, ma le lungaggini di siffatte operazioni la
costrinsero a chiedere il concordato preventivo. Lo stabilimento fu acquistato da Domenico Maldarelli nel 1910: BCM,
Conferenza tenuta dal sig. Donato Maldarelli di Domenico al Lions club di Molfetta l’8 aprile 1967, p. 6.
104
BCM, Causa Seitz, Margutti, Massari contro Fusaro, Trani 1890.
105 Ibidem, Per la Ditta De Gioia Spadavecchia contro Paolo Visaggio, Taranto 1881.
106 Ibidem, Causa Seitz, Margutti, Massari contro Fusaro, Trani 1890, p. 4.
107
AST, Fallimenti, Laquai & C., fasc.458, relazione di Nicola Perta.
108 Ibidem, Società commerciali, b. 18, fasc. 444.
109 Ibidem, Fallimenti, Laquai & C., fasc. 458, relazione di Luigi Gambarini.
110 Ibidem, Società commerciali, b. 20, fasc. 470.
111 Ibidem, Società commerciali, b. 20, fasc. 481.
112 Ibidem, verbali di assemblea 1921, 1922, 1923. Per notizie più approfondite cf P.A.M. GAMBARDELLA, Storia di un
industriale molfettese: il cav. Luigi Gambardella (1870-1941), «Studi Molfettesi», n.5 (1997), p. 101-143.
113 Ibidem, Società commerciali, b. 18, fasc. 447; i passi riportati sono desunti dalla relazione del 1906 del Presidente
del Consiglio di Amministrazione, ing. Filippo Danioni; ibidem, Fallimenti, b. 77, in cui è possibile leggere una
dettagliata descrizione dell’officina e dei relativi macchinari, risalente al 1901.
114
ACM, Cat. 8, vol. 16, fasc. 1/12.
14/02/2013
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